Quella Repubblica che ebbe gli elogi di Marx

Vita e morte della Repubblica Romana (1848-1849)

Prima parte

All'epoca Goffredo Mameli era un giovanissimo poeta di ideali repubblicani radicali: scriveva anche canti inneggianti Giuseppe Mazziniall'Italia "una e libera". Nel 1848 l'Italia indossa ancora quel vestito di "Arlecchino" canticchiato ironicamente per le vie delle città che sono sotto l'imperial regio governo austriaco: è quindi divisa in tanti Stati, tante monete, tante lingue dialettali che comunque sono unite da una più alta espressione di dialogo: è il "sì" sonante della Toscana, la lingua di Dante Alighieri, il collante che fa sentire queste genti di diversi staterelli peninsulari accomunati, stretti da un patto di riscatto verso le frontiere che dividono e separano i discendenti degli antichi romani e delle "gens" nordiche cisalpine in territori qui regionali (come il Granducato di Toscana) e in formazioni statali più complesse, come ad esempio il triregno pontificio che assume il nome comune di "Stato della Chiesa". Goffredo Mameli e tanti patrioti e liberali italiani vivono qui a Roma e vivono momenti complessi, per certi versi terribili che sono inseriti nel gorgo dell'evoluzione unitaria italiana tra alti e bassi (a seconda, sempre, dei punti di vista).

Pio IX è il Papa-re, il pontefice regnante all'epoca: si spinge in riforme sociali e in un sostegno, nei primi tempi, alla "causa italiana". Poi la minaccia di uno scisma dell'Austria nei confronti della Chiesa cattolica, lo spinge a ritirare i soldati pontifici dalle fila dei combattenti nella prima guerra di Indipendenza e a contrastare i tentativi di risoluzione dei conflitti che in tendenza spingono verso quello Stato panitaliano che tanto darebbe noia agli imperi ed alle repubbliche che stanno attorno allo Stivale. Anche la Francia del futuro imperatore Napoleone III osteggia l'unità d'Italia: i clericali d'oltralpe non vedono di buon occhio la possibilità di una riduzione del potere papale a mero potere spirituale, privo di quel "patrimonium Sancti Petri" di origine carolingia.

Pare, invece, che oltre oceano i sostenitori dell'Italia una e libera siano molti: i giovani stati dell'Unione creata da Washington non fanno misteri di considerare positiva la creazione di uno Stato italiano. Meglio ancora se repubblicano e alieno da influenze cattoliche. Di rimbalzo, nella vecchia Europa, uno dei popoli che maggiormente sostiene l'unità italiana è quello polacco, che vive sotto l'amministrazione zarista e che si trova separato in diversi territori a suo tempo oggetto di spartizione tra Maria Teresa d'Austra e i prussiani, o tra la citata imperatrice e i sultani dell'Impero ottomano.

In mezzo a questo sciamare di liberalismi, di ricerche di libertà nazionali e di nascenti tendenze socialiste anche in seno a queste stesse lotte patriottiche, subito dopo la fine del sogno albertino di unificare almeno il nord Italia sotto un unico tricolore con lo scudo di Savoia al centro, in Italia si sviluppano nuovi focolai di rivolta. La Sicilia affronta il governo autonomista di Ruggiero Settimo, la Toscana caccia il proprio granduca e instaura un regime di ibrido repubblicanesimo guidato da Guerrazzi. A Roma il malcontento non ha bisogno di nascere: è già presente e si manifesta in tutta la sua forza dirompente con l'assassinio del ministro laico Pellegrino Rossi. Un uomo non eccessivamente votato al clericalismo e neppure al completo dominio del laicismo: un modo per fare scontenti sia i curialisti più accesi che, per contrario, i liberali più ferventi. Una lama affilata spezza la vita di Rossi e Pio IX non vede altra scelta se non quella di fuggire da Roma, di prendere riparo nel Regno delle Due Sicilie, a pochi chilometri dal confine con il suo Stato: a Gaeta.

La folla per le strade di Roma canta con fervore rivoluzionario una canzone che preti e cardinali Aurelio Saffisentono con orrore...: "Se il Papa è andato via, buon viaggio e così sia! Non morirem d'affanno perché fuggì un tiranno! Perché si ruppe il canapo che ci legava il piè! Addio sacra corona, finì la monarchia! Or che sovrano è il popolo, mai più ritorni un re!". È una ricostruzione forse imprecisa dei veri versi che allora si cantavano nelle piazze e strade di Roma, ma dà il senso dell'odio verso il clericalismo, e la voglia di assaporare finalmente una nuova gestione sociale del potere, legata per davvero alla base popolare. Sono giorni di convulse relazioni politiche. Gli altri Stati italiani esitano a prendere posizione: anche la Toscana insorta preferisce non esporsi troppo. Dal canto suo il Papa giura che tornerà, ma intanto scappa per la via Appia vestito da semplice pretino e supera il confine così travestito.

Goffredo Mameli respira l'anelito di libertà che pervade Roma e che in pochi giorni fa accorrere da tutte le parti del mondo gli spiriti radicaleggianti eccitati da questa fuga del pontefice e dalle prospettive che ora si aprono negli stati della Chiesa. Garibaldi e molti altri settori popolari e della media borghesia spingono per la proclamazione della repubblica. Altri propongono di attendere ancora le decisioni della Toscana. Altri ancora propendono per richiamare il Papa e proporgli di regnare da semplice Papa, senza più l'appellativo di "re".

Tra tutte le soluzioni, quella che prende sempre più corpo è la proclamazione della repubblica. In un regno elettivo, dove non esiste discendenza diretta, non sembra esservi altra soluzione. È la soluzione migliore: convince anche quei mazziniani più scettici come Carlo Pisacane, dichiaratamente socialista. La repubblica viene proclamata in una Roma tripudiante di tricolori, dove il nero delle tonache sembra miracolosamente sparito, rintanato nelle chiese e nei conventi, tutto intento a non comprendere cosa si muove nella società romana ed italiana, ma semmai ad attendere la dura reazione pontificia.

Mazzini si trova in Svizzera e tiene strettissimi contatti con i patrioti italiani: Mameli gli scrive un telegramma il giorno stesso che viene proclamata la Repubblica Romana. È un testo icastico, brevissimo: "Roma. Repubblica. Venite!".

L'apostolo dell'unità d'Italia parte immediatamente, semina come Giuseppe Mazzini e Aurelio Saffi
immagini tratte da www.pri.it
sempre gli sbirri austriaci dietro di sé e si ferma in quella Toscana che vorrebbe essere repubblica ma che non lo è. Cerca di convincere Guerrazzi e Montanelli ad unificare i territori della Romagna, le Marche, l'Umbria e il Lazio alla Toscana. Ma i toscani non valutano politicamente opportuno unirsi alla neonata Repubblica Romana. Se ne va da Firenze imbronciato, deluso più che altro. Ma ora pensa a Roma, libera dal Papa e repubblicana. Entra di notte in quella che ha sempre considerato come la sola, l'unica città che può essere la capitale d'Italia. Entra e sembra trasalire tra i monumenti, le rovine dei fori imperiali, le strade che sembrano rumoreggiare ancora del passo dei fratelli Gracchi o di Catilina e Cicerone, o di Augusto e Marco Antonio.

Nei giorni a seguire si forma l'esecutivo del nuovo Stato sorto sulle rovine del potere temporale dei papi: è il Triumvirato. Ne fanno parte Aurelio Saffi, Giuseppe Mazzini e Carlo Armellini. Saffi e Armellini interpretano i voleri del vecchio clero aristocratico e della nuova borghesia liberale. Mazzini tiene a specificare che lui si sente solo e semplicemente il "rappresentante del popolo". E c'è un vago sapore giacobino in questa affermazione che non sfuggirà a Marx nei suoi scritti "Sull'Italia", identificando in Mazzini certamente un nemico dei comunisti ma anche un avversario corretto e leale. Come tale si dimostrerà alla Prima Internazionale.

Marco Sferini
Maggio/Giugno 2005

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