Alle origini del materialismo storico e dialettico

I primi passi fuori dall'alienazione religiosa

«Da questa parte suo cimitero hanno con Epicuro tutti i suoi seguaci, che l'anima col corpo morta fanno». Così padre Dante getta nell'inferno il filosofo greco e tutta la sua scuola di pensiero. L'epicureismo, similmente al platonismo, possiede i fondamenti di una laica eresia precristiana: quando infatti il filosofo di Samo è in vita e spiega ai suoi discepoli la qudrifarmologia per il vivere felici e senza la minima sensazione del dolore, il Cristianesimo è ancora lontano dal conoscere l'alba nel mondo. Eppure, ancora oggi, l'epicureismo passa sotto le forche caudine del più retrogrado clericalismo gesuitico o, Epicuropiù semplicemente, Vaticano. Il materialismo è ancora oggetto di sguardi sospettosi, di apostrofazioni rigidamente ancorate all'osservanza del "timor di Dio", e non è neppure bastato che Marx ed Engels lo ancorassero al più meticoloso scientismo per liberarlo dalla piaga del pregiudizio e della secolare rincorsa della Chiesa alla crocifissione delle idee e dei paradigmi di pensiero.

Quel "comunista" greco antico di Epicuro non possedeva doti divinatorie e, conoscendone l'indole filosofica e lo stile di vita, avrebbe certamente disprezzato una qualità che fosse trascendentale, che oltrepassasse i confini dell'umana razionalità e dell'atomismo puro e semplice. Atomi, anima. Un'anima fatta di ciò, di una essenza morente, di una fissità temporale definita entro la biologicità mortale della vita: il consumarsi della rigenerazione ossea, epidermica e il costante e inesorabile declino fisico, del cardio e del cerebro.

Marx non ha mai approfondito tematiche come l'anima umana in senso teleologico. Ha semmai preferito discutere di quell'"animo umano" che è la caratteristica sociale dell'individuo. In poche parole della "coscienza". Distanti secoli, millenni, Epicuro e Marx approdano però alla medesima ragione di ricerca filosofica: la felicità umana e, parimenti, il ridimensionamento tendente all'annichilimento del dolore e delle sue cause, prima di tutto.

Il filosofo di Samo gestisce il tutto con delle autosuggestioni paramediche fornitegli più dal buon senso che non da una teoria scientifica che possa dirci come funziona il meccanismo per cui tre quarti e più dell'umanità vive di lacrime, sangue, fatica, bisogni insoddisfatti.

Ma del resto a quel tempo non poteva il nostro greco neppure immaginare cosa sarebbe potuto essere il capitalismo, la società delle merci e tutte le sue contraddizioni latenti e pendenti sulla sorte dei popoli. A quel tempo, tanto per definirlo meglio siamo tra il 340-42 e il 270 avanti Cristo (queste sono le date in cui viene fissata da tutti gli storici l'esistenza del fondatore della scuola del Giardino) in una celebre "Lettera a Meneceo", che la moderna diffusione dei libriccini a "Millelire" ha fatto conoscere come la "Lettera sulla felicità", Epicuro scrive che è profondamente insensato, sciocco e una letterale perdita di tempo, assottigliamento della gioia di vivere il domandarsi continuamente cosa vi sia post-mortem. Infatti, sostiene circa la morte: "Quando ci siamo noi non vi è lei, e quando c'è lei non vi siamo noi".un busto e un'immagine del giovane Epicuro Imperturbabilità davanti all'inconoscibile. Potrebbe tradursi così in poche parole la saggezza epicurea: eppure essa racchiude il fondamento, la pietra angolare del futuro pensiero critico circa la religione fatta ben presto serva del potere temporale papalino e spezzettata in odore di giustizia sociale in tanti differenti culti: quando si addita il calvinismo come principio ispiratore del moderno modo produttivo capitalistico, non lo si fa per addossare a Calvino ed ai suoi tutte le colpe del mondo. È fuori discussione che la religione sia servita per lenire i dolori umani, che Epicuro invece, come Marx, ha cercato di curare con la terribile realtà della finitudine della conoscenza e della presa di consapevolezza dell'essenza dell'uomo e del suo stato sociale, economico e poi morale e politico, culturale ed artistico.

Dolori e gioie sono i volani, in fondo, dell'agire nostro anche oggi. Intorno a queste dirimenti vicende alterne sull'animo umano, sull'essenza della vita e sulla religione come "opium des volks" ("oppio dei popoli") ogni tanto si accendono sui giornali, anche su "Liberazione", fiammate e rigurgiti di chi ha una sintomatologia prettamente negazionistico-ortodossa che non fa altro che vedere nel marxismo il disvelamento dell'inganno perpetrato dai culti teistici. E poi c'è chi si Epicuroaffanna alla ricerca del giustificazionismo storico e sociale per dire che tutto sommato la religione non fa male a nessuno e che è semmai il temporalismo vaticano ad essere il piombo nelle ali del vero sentimento d'amore verso "un" dio.

Che cosa avrebbe pensato Epicuro di tutto ciò? Lui, gettato da Dante Alighieri nell'inferno per aver dichiarato la mortalità dell'anima, invece che affermarne il volare via dallo spregevole carnalismo mortale che finisce sotto due metri di terra umida o dentro il calore di un forno?

Probabilmente avrebbe sdrammatizzato il tutto al modo dei greci: con una tragedia? O con una commedia alla Aristofane? Non ci è possibile saperlo, ma una cosa va detta: sia Epicureo che Marx non hanno mai messo un segno di condanna sulla consapevole devozione verso un culto. Loro si sono, in particolare Marx, premurati di denunciare come molto spesso, anzi quasi sempre noi poveri esseri umani ci volgiamo ad un "essere supremo" (simile a quello di Robespierre, che lo creò appositamente perché si diceva consapevole del fatto che gli uomini non possono sposare l'ateismo come comportamentalità di vita: Hebert, che lo proclamava a pieni polmoni, in fondo non venne ascoltato molto dai parigini) per diminuire la portata delle nostre sofferenze in terra, per sentirci protetti, accuditi e riscaldati da un materno e misericordioso amore. Inventato, ma pur sempre consolatorio.

Fatta questa considerazione, l'oggetto in sé medesimo, ossia la religione e tutti i suoi nessi e connessi è palesemente una "distrazione" umana e dall'uomo usata per sfuggire alla crudezza della vita. Nulla impedisce, però, che la coscienza di ognuno di noi, formata sulla base di un sano criticismo razionalistico, si porti vicino ad un culto, ad una credenza religiosa. Ciò che importa è in qualche modo poter credere, se si vuole, e al contempo non perdere di vista l'analisi che condanna la struttura e la sovrastruttura odierne come regali maestà dell'alienazione umana.

Quando Epicuro morì, lasciò ai suoi seguaci la sua casa con accanto un bel giardino: da qui nacque l'epiteto per gli epicurei di appartenenti alla "Scuola del giardino". Un giardino che ha dato ottimi frutti.

Marco Sferini
Ottobre 2004