Nazioni, patrie e socialismo

Né l'ungherese, né il polacco, né l'italiano possono essere liberi fino a che rimane schiavo l'operaio!

L'Europa delle nazioni nasce, come è noto, molto lentamente: fino alla fine della Prima guerra mondiale continuano comunque ad esistere sul Vecchio continente enormi contenitori di moltitudini popolari che sono profondamente differenti tra loro per cultura, storia ed economia. L'esempio più eclatante di tutto ciò sarà l'Impero absburgico: la dissoluzione della Cisleitania e della Transleitania porteranno alla nascita di nazioni come l'Ungheria dai moderni confini attuali, della Repubblica cecoslovacca, la trasformazione della Serbia in Regno di Jugoslavia (includendo in sé stessa le regioni mitteleuropee di Slovenia e Croazia, particolarmente ricche), la cessione alla Romania di vasti territori anche di nazionalità magiara e il ridimensionamento dell'Austria a quello che gli storici da allora definirono l'erede di un grande stato con una grande testa (Vienna) e un piccolo corpo: appunto l'Austria attuale. Nel quadro delle rivoluzioni del 1848-49 che sconvolgono l'Europa è ovvia la centralità che possiede un impero come quello degli Asburgo-Lorena: non solo per il ruolo che riveste quale territorio di contatto tra l'est e l'ovest del continente, ma anche per le contraddizioni che trascina con sé. Però nel tormentato impero di Cecco Beppe non si arriva, come in altre parti d'Europa, a sospingere la rivoluzione verso connotazioni che surclassino l'angusto tema meramente nazionalistico verso un più vasto orizzonte socialista. Le lotte di rivoluzionari dal grande impegno sociale, come Lajos Kossuth (il "Mazzini ungherese")Lajos Kossuth, sono rinchiuse in un recinto di rivendicazione di indipendenza dalla tirannide di Vienna. Non vi è nessun punto di riscossa classista: e qui sorge la grande separazione tra i fermenti che si sprigionano nella Francia di quel tempo e in parte anche in Italia con l'avvento della breve parentesi della Repubblica Romana (di cui Marx stesso fece gli elogi... e sappiamo quanto Marx fosse poco propenso ad elogi verso Mazzini e alle sue politiche improntate sul motto "Dio, patria e famiglia"...).

Le rivoluzioni di quell'epoca preparano un più fertile terreno a un grande tentativo rivoluzionario che vedrà il suo culmine nel 1871, quando, caduto l'impero di Napoleone III con un Bismark trionfatore e attuatore del Secondo Reich, i prussiani sono all'assedio della Francia: a Parigi si instaura un clima di insurrezione. La appena proclamata repubblica deve fare i conti con una Assemblea legislativa fortemente reazionaria che desta non pochi malumori nel proletariato parigino e non solo: questo consesso di facoltosi borghesi approva, infatti, la soppressione della paga della guardia nazionale e l'abrogazione della moratoria degli affitti e umilia il popolo oltre che affamarlo. La misura diviene colma e i soldati si ribellano al governo di Thiers: per le vie della capitale francese la popolazione pare ritornata ai tempi della Bastiglia, quando la guardia comandata da La Fayette si unì agli abitanti per assaltare la fortezza e cominciare quella che nessuno avrebbe pensato fosse una nuova era del mondo moderno. Il governo si accorge immediatamente di quanto accade e decide di fuggire e riparare nella più sicura Bordeaux. Ma, sebbene lontano da Parigi, la repressione sui comunardi non sarà per questo meno cruenta.

La borghesia francese che pareva essere stata sino ad allora una forza liberale e tendenzialmente progressista, assume il suo vero volto e si trasforma in una forza pesantemente conservatrice, controrivoluzionaria. Ma la "Comune" parigina, nonostante repressa e soffocata nel sangue, è la dimostrazione che il proletariato può raggiungere quelle necessarie condizioni storico-sociali per prendere in mano il cammino umano e rivoltare come un calzino il sistema economico che lo opprime.

Sono gli anni in cui Marx ed Engels affilano sempre meglio i bisturi con cui riescono ad aprire la "pancia" del mostro capitalista, a comprenderne con grande acume scientifico i più complicati ed al tempo stesso semplici meandri: ne nascerà la "critica dell'economia politica", ossia "Il Capitale". In questo materialismo scientifico si inseriscono bene non solo le parole del "Manifesto comunista" redatto proprio nel 1848, ma anche i concetti espressi dai due grandi amici e pensatori tedeschi nelle "Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850". Scrive infatti Marx: "Lo sviluppo del proletariato industriale è condizionato, in generale, dallo sviluppo della borghesia industriale. È soltanto sotto il dominio della borghesia industriale che il proletariato industriale acquista quella larga esistenza nazionale, la quale rende nazionale la sua rivoluzione; crea i moderni mezzi di produzione, i quali divengono in pari tempo i mezzi della sua emancipazione rivoluzionaria". Sa bene il filosofo di Treviri che la borghesia francese ancora non è equiparabile a livelli come quello inglese, dove lo stadio di avanzamento del "progresso" capitalista è accelerato e accresce il suo dominio imperiale in vasti settori del mondo. La Francia inizia, insieme alla Germania, ancora divisa in tanti stati tedeschi, a dare una concretazione ad una socialità borghese differente dai modelli precedenti: la grande industria prende a svilupparsi sul continente e porta a poco a poco le singole classi dominanti a rivendicare un ruolo di predominio sulle altre: la costruzione degli Stati nazionali corrisponde appunto a quanto Marx afferma già nel 1850: ossia al semplice fatto che solo una coesione economica nazionale può anche dare forma di "nazione rivoluzionaria" ad un proletariato disperso e inconsapevole di essere un potenziale di liberazione sociale, per sé stesso e per tutti.

Continua, infatti, Marx: "Né l'ungherese, né il polacco, né l'italiano possono essere liberi fino a che rimane schiavo l'operaio!". Ecco la grande intuizione, forgiata su decenni di studi non dettati alla semplice metafisica (anzi...): la liberazione nazionale non è separata da quella sociale, di classe: e, sebbene qualcuno si ostini a voler cercare di dimostrare che una unità statale può prescindere dai potentati economici, sappiamo bene che repubbliche e monarchie sono solamente forme di una sovrastruttura ben impiantata sui voleri dell'economia dominante in un dato momento, in un preciso luogo, con un determinato stato sociale attivo nel meccanismo di produzione del profitto padronale.

Ogni lotta di indipendenza nazionale è fine a se stessa e non porta nessun giovamento al popolo che la reclama se, chi la vuole condurre, non fa avanzare anche un'idea di trasformazione socialista del contesto in cui vive e opera. Un'idea che non deve certamente rimanere nel campo dell'astrazione, ma che deve trovare una sua traduzione reale nell'impossessamento del potere.

E comunque un cambiamento sociale non è prodotto da semplici leggi o prese di potere: è crudelmente dettato dall'anarchia merceologica, dalle variabili sia dipendenti che indipendenti del mercato capitalistico. Una nazione, un popolo, sono liberi se nel loro codice genetico si scrivono due semplici grandi parole: libertà, socialismo. La libertà è una condizione necessaria per operare una trasformazione in senso anticapitalista del contesto sociale: il passo successivo è la creazione dell'opposto di quanto vi era prima.

Una libertà, dunque, che non può fare a meno del socialismo, socialismo che non può fare a meno della libertà per essere tale. In fondo, una socialista rivoluzionaria come Rosa Luxemburg, che amava molto la sua terra polacca oppressa dallo zarismo, sapeva bene, e ce lo ha tramandato, che o si vive nel socialismo o nella barbarie... e questo a prescindere dalla conformazione dello Stato: sia esso una repubblica, una monarchia, un impero o una qualsiasi forma di potere.

Marco Sferini
Luglio 2003

I brani in grassetto sono tratti da "Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850" di Karl Marx, introduzione di Friedrich Engels.