Dopo il referendum

Un primo bilancio per il dibattito nel PRC

La sconfitta amara del referendum sull'articolo 18 apre un dibattito serio e approfondito nel partito. È necessario trarre un bilancio complessivo della linea seguita dal partito negli ultimi anni, e in particolare dopo l'ultimo congresso nazionale (Aprile 2002). A nostro avviso gli avvenimenti delle ultime settimane chiamano in causa l'intera impostazione delle tesi congressuali e la pratica che ne è derivata. Dobbiamo in primo luogo rispondere a due domande centrali.

  1. Quali sono state le cause di un risultato così basso?
  2. Quali sono le conseguenze politiche per i lavoratori e per il nostro partito?

L'esito del voto dimostra a nostro avviso come il referendum fosse uno strumento inadeguato per inserire la nostra iniziativa nel movimento di lotta in difesa dell'articolo 18. Quando venne lanciato il referendum (all'inizio dello scorso anno) avevamo espresso questa opinione nel dibattito della Direzione nazionale. Nell'aprile del 2002 scrivevamo:

"Il referendum è il terreno di lotta più arretrato, dove meno possiamo far pesare il ruolo sociale, economico e politico della classe lavoratrice. In uno sciopero generale, mille lavoratori che bloccano una grande azienda o un settore vitale della produzione o del commercio contano infinitamente di più di mille pensionati, avvocati e suore di clausura (...); ma nel voto referendario contano allo stesso modo, con l'ulteriore aggravante che gli strati più dispersi, più arretrati e disorganizzati della popolazione sono facile preda della propaganda di un governo che dispone di sei canali televisivi e infiniti altri mezzi di comunicazione.

Proporre oggi il referendum (...) significa inoltre dare tempo al governo in un momento in cui è in difficoltà. (...) avrebbe circa un anno per manovrare con i vertici sindacali, in particolare di CISL e UIL, per confondere le acque. Giunto a ridosso del voto potrebbe scegliere liberamente se affrontare la prova (nel caso ritenesse di poter vincere) o se sottrarsi".

FalceMartello 156
24 Aprile 2002

Questo è esattamente quanto è successo. Dopo di allora non siamo tornati ad esprimere la nostra critica rispetto allo strumento referendario e abbiamo partecipato attivamente alla campagna come tutti i militanti del PRC, oggi però è il momento dei bilanci, ed è giusto tornare sul nostro dibattito per trarne delle conclusioni.

La realtà è che il referendum è stato lanciato come un sostituto di una battaglia che era necessario condurre nel vortice delle mobilitazioni di massa del 2002, una battaglia che puntasse a mettere in discussione i metodi di lotta proposti da Cofferati (ossia gli scioperi centellinati, la mancanza di una piattaforma offensiva, la gestione completamente verticista della mobilitazione) per conquistare posizioni nelle fabbriche, nelle categorie e nella base della CGIL. Tutto questo non è stato fatto, il messaggio implicito della campagna referendaria era che il referendum avrebbe sostituito questo lavoro, sicuramente complesso e meno appariscente, ma che era imprescindibile per conquistare un nostro ruolo nella lotta e non limitarci ad applaudire Cofferati. Tutto questo non si è fatto, e ora non si può raccogliere dove non si è seminato, la nostra rinuncia a condurre una seria battaglia egemonica nella fase di massima espansione dei movimenti ci consegna oggi questo esito.

Il risultato amaro è che la nostra influenza fra la classe operaia e nel movimento sindacale è ridotta ai minimi termini. Il numero di militanti sindacali, di RSU, di strutture che sono effettivamente influenzate dal PRC è ridotto al lumicino. La sinistra della CGIL, Cambiare Rotta, si è vieppiù allontanata dalla nostra influenza, fino al punto che quando la CGIL ha deciso di dare indicazione di voto per il Sì (un'indicazione che nella stragrande maggioranza delle realtà non si è tradotta in alcuna azione pratica), i dirigenti di Cambiare rotta sono usciti dal comitato nazionale per il Sì, con la scusa che ormai la campagna era di tutta la CGIL.

Si è detto in passato che l'importante era fare il referendum, e non il risultato, che contava il fatto che si metteva l'articolo 18 e il partito al centro della scena politica. Ci paiono argomenti molto deboli. Mettersi sotto i riflettori è positivo se si hanno le forze per reggere lo scontro; altrimenti non si fa altro che mettere a nudo la propria fragilità. E questo è quanto è successo il 15 Giugno. Non esiste una classe operaia che dà fiducia a un partito che dice "andiamo in battaglia, anche se perdiamo". Certo, ci sono casi nei quali è impossibile sottrarsi allo scontro, anche se i rapporti di forza sono sfavorevoli. Gli operai della FIAT hanno fatto la loro battaglia contro tutto e tutti. Ma qui la questione è diversa: noi abbiamo scelto la piattaforma, il campo di battaglia, lo strumento. Dire "l'importante era provarci" significa ragionare in termini di testimonianza, moralistici, e non da partito che vuole esercitare una reale influenza nella lotta di classe. Ma già, questa è la "concezione novecentesca dell'egemonia" che si è voluta ripudiare.

Quei dirigenti del partito che si riempono la bocca di "movimento, movimento", dovrebbero guardarsi più seriamente attorno e valutare lo stato attuale dei movimenti. La realtà è che dopo la fine della guerra in Iraq siamo entrati in una fase di stallo, che ha degli effetti politici. C'è stata la sconfitta della FIAT (determinata dall'incapacità della FIOM di dare uno sbocco alla lotta nel momento decisivo); c'è stata la vittoria americana in Iraq; c'è una lotta dei metalmeccanici che è in una situazione drammatica, nella quale il vertice FIOM non ha una strategia per uscire dalla stretta in cui si trova e propone una linea di articolazione della lotta che è in realtà una "disarticolazione" (si firmano contratti dove si può, azienda per azienda). Tutto questo ha un effetto fra le masse, non possiamo confondere le opinioni di una fascia relativamente ristretta di attivisti politici con quelle di milioni e milioni di lavoratori, che oggi sono in una fase di ripensamento e tentano di trarre un bilancio di due anni di mobilitazioni di massa. Tutti questi dati si sono ripercossi sul voto referendario, rendendo la sconfitta particolarmente pesante; ma, diciamolo chiaramente, se invece del 25,8% fosse andato a votare qualche milione di persone in più non siamo affatto certi che questo avrebbe cambiato in modo decisivo i dati di fondo della situazione.

Dire questo non significa dire che siamo tornati indietro di dieci anni e che ora tutto è finito. Si tratta di una fase temporanea, dopo la quale inevitabilmente vedremo nuove e più forti mobilitazioni, come ci dimostrano gli avvenimenti di altri paesi, dalla Francia al Perù. Ma non possiamo "mangiare oggi il pane di domani", dobbiamo interpretare accuratamente la fase nella quale ci troviamo, se vogliamo conquistare una vera sintonia e una fiducia salda verso il nostro partito, in particolare fra i lavoratori. Le difficoltà dei movimenti sono reali, chi è sceso in piazza negli scorsi anni e vede queste difficoltà, non ci chiede dei "gesti" o delle trovate d'immagine, ma ci chiede una riflessione seria: cosa è mancato per vincere? Perché il governo Berlusconi è sopravvissuto a un movimento di così vaste proporzioni? Perché i metodi di lotta adottati non hanno avuto efficacia? Se sapremo aprire un vero dialogo di massa su questi temi, allora potremo riconquistare terreno e prepararci nel modo migliore a rispondere alla rinnovata arroganza del governo e dei padroni. Se invece a queste persone diciamo "abbiamo fatto una scommessa, abbiamo perso e ora dobbiamo vedere come riprovarci", allora difficilmente saranno disposte a camminare con noi, anche se proporremo le battaglie più sacrosante.

Altrettanto importante è il risultato politico del voto, sia referendario che delle amministrative. Bertinotti ci dice che il Centrosinistra è "disarticolato". Addirittura nel dibattito della Direzione Nazionale del 16 Giugno si è detto che nel rapporto con l'Ulivo siamo molto più forti che nel 1996, al tempo della desistenza (così Alfonso Gianni). Cari compagni, questo significa veramente vedere il mondo alla rovescia! Il Centrosinistra e i DS si erano divisi quando c'erano le masse in campo; oggi le loro divisioni sono molto minori. Nei DS il correntone si sta disgregando, Cofferati torna all'ovile e D'Alema giganteggia. Il nostro partito è politicamente inerme di fronte alle loro pressioni.

La linea adottata dalla Direzione parla di aprire un dialogo fra "più soggetti", non solo PRC e Ulivo, per vedere se esistono le condizioni per arrivare a un accordo contro la destra. Ma non è chiaro che a questo dialogo arriveremo tremendamente indeboliti? Se punteremo i piedi su qualche punto programmatico, presumibilmente D'Alema (o chi per lui) ci dirà: "Non vi va bene? Fatevi un altro referendum!". Si apre così una lunga fase di trattativa, che come insegna l'esperienza del passato porterà il corpo del partito a una posizione di spettatore di quanto fa il gruppo dirigente nel suo rapporto con l'Ulivo. L'esito appare scontato, e cioè quello di un nuovo disastroso accordo con il Centrosinistra. Ma se anche all'ultimo momento dovessimo decidere di "sfilarci", lo faremmo nelle condizioni peggiori, senza aver preparato il terreno e le condizioni necessarie.

I risultati delle amministrative parlano fin troppo chiaro, a questo proposito. Torniamo brevemente sulla valutazione espressa dubito dopo il voto.

"Il governo esce indebolito, e in particolare Forza Italia. Il calo della destra nelle elezioni è un pallidissimo riflesso della critica verso il governo che ha riempito le piazze in questi due anni. Il voto all'opposizione è soprattutto un voto di sinistra. La Margherita subisce una sconfitta secca, con alcuni veri e propri tracolli. Crescono invece i DS e i Comunisti italiani. Ma è il voto per il PRC che deve far riflettere tutti noi. Si può cantare vittoria perché a Roma si passa dal 5,4 al 6,2? O per qualche decimale conquistato in questa o quella provincia? In realtà il voto al PRC ci parla di una colossale occasione persa. Dopo due anni nel quale il paese è stato percorso in lungo e in largo da mobilitazioni di massa, il partito più a sinistra, che si è dichiarato il più coerente portatore delle istanze dei movimenti, raccoglie un risultato sostanzialmente stagnante.

La Sicilia è certo un terreno difficile per la sinistra, soprattutto sul terreno elettorale. Eppure è stata attraversata da una lotta di portata nazionale come quella della FIAT (e in precedenza quella di Gela), che ha messo in fibrillazione l'intera isola. Ebbene, il PRC lascia sul campo oltre 20mila voti, "tiene" a Palermo (dal 3,8 al 4%, ma perdendo migliaia di voti), cala in quasi tutte le altre realtà. A Brescia, punta avanzata delle mobilitazioni sociali (non solo i metalmeccanici, ma anche gli immigrati, ecc.) il PRC cala dai 6.903 voti delle politiche ai 3.008 delle comunali, dove ci presentavamo da soli avendo l'Ulivo rifiutato tutte le richieste (che a volte sembravano delle suppliche) di farci partecipare all'alleanza. Un calo al 5,1 al 3,3%, mentre i DS passano dall'11,8 al 17,6. Più grave ancora, una parte consistente del nostro elettorato vota la lista del PRC ma sceglie il candidato sindaco dell'Ulivo. In generale le presentazioni autonome del PRC dal centrosinistra vedono un calo dei voti (Massa: dal 10,1 al 5,7%; Pisa: dall'8,3 al 6,7). Dove il PRC è in alleanza i risultati sono in generale meno negativi, ma quasi ovunque i voti assoluti sono in calo e i maggiori beneficiari dell'alleanza sono i partiti dell'Ulivo e in primo luogo i DS.

Questi dati hanno due spiegazioni. La prima, è una spiegazione generale: di fronte alla necessità di dare in qualche modo un colpo al governo, l'elettorato di sinistra vota l'Ulivo (e al suo interno le forze di sinistra), considerandolo l'unica forza con la massa critica sufficiente. Ma questo non spiega tutto. Il voto al PRC è anche una manifestazione, muta ma molto eloquente, di come viene considerato il nostro partito: troppo velleitario, troppo contraddittorio (un giorno si dichiara la "morte dell'Ulivo" per poi il giorno dopo resuscitarlo nelle alleanze elettorali), troppo incapace di esercitare un ruolo di effettiva avanguardia e di direzione per essere credibile".

FalceMartello 167
4 Giugno 2003

Questa è l'amara realtà delle elezioni: i lavoratori hanno pesato il nostro partito, e lo hanno trovato molto, molto leggero. E il voto del referendum lo ribadisce in modo drammatico. Chi scrive si è sempre opposto ad accordi elettorali con personaggi come Illy o Gasbarra, così come ci opponiamo alla proposta di aprire questa trattativa con l'Ulivo. L'esperienza degli anni del governo Prodi, così come di tante coalizioni a livello locale, dovrebbe istruirci su cosa significano questi accordi per il partito e per i lavoratori. Ci opponiamo quindi con forza a una prospettiva che riteniamo disastrosa.

Al tempo stesso, abbiamo ben chiaro che la questione delle alleanze è solo un aspetto, per quanto importante, del problema più generale della autunomia di classe che il partito deve esprimere. Non sono solo le sirene "governiste" che ci chiamano ad approdare verso i lidi del Centrosinistra. È anche tutta una teoria e una pratica che in questi anni, in particolare con l'ultimo congresso, si è affermata nel partito. Il partito si è allontanato dalla classe, si è allontanato dai luoghi reali del conflitto, si è abbandonato a una politica d'immagine, di gesti, di parole altisonanti e spesso con venature estremiste. Le teorizzazioni sul "nuovo movimento operaio", sulla disobbedienza e sulla costruzione della cosiddetta "sinistra alternativa" (una specie di leggenda urbana della quale si parla sempre senza mai vederla) hanno magnificato quello che in realtà era un drammatico indebolimento delle radici del partito stesso e un allontanamento dalle proprie radici di classe. Qui sta il nodo del problema, e lo vorremo dire anche al compagno Ferrando e agli altri compagni della minoranza che pongono come unico tema a dibattito la questione delle alleanze. Se si vuole che il partito rompa una volta per tutte con la collaborazione di classe con l'Ulivo, non basta ripeterlo come un disco rotto presentando a ogni riunione degli organismi dirigenti un documento che dice sempre la stessa cosa. È necessario anche indicare, sia nelle proposte, sia nella tattica, sia nella pratica politica, una strada che possa radicare il partito fra i lavoratori, che possa farci guadagnare quell'autorità e quella fiducia senza le quali l'indipendenza di classe rimane una bella parola senza le gambe per camminare. La proposta di Ferrando, cioè di partire dagli 11 milioni di Sì per costruire un "polo autonomo di classe" è una barzelletta, date le condizioni, è una frase bella da sentire. La classe, come dimostrano le ultime elezioni, è ancora saldamente sotto il controllo dei DS. Il problema del ruolo della socialdemocrazia, ossia dei DS, viene completamente eluso nel ragionamento di Ferrando. È facile dire "di qua, con il SI, ci sono le forze di classe, di là ci sono i rappresentanti del capitale". Ma è una semplificazione che sfiora la demagogia. Intanto, perché con il Sì si sono schierate forze non esattamente di classe. Di Pietro è un demagogo di destra, i Verdi sono un partito piccolo borghese e non certo proletario, ecc. Ma anche nel campo diessino (inteso in senso lato) le cose non sono così semplici. Occhetto, che era per il Sì, non è più vicino alla classe operaia di Fassino che era per l'astensione. È un errore scattare una istantanea in un dato momento e cercare di trarre da essa indicazioni definitive. Il caso di Cofferati lo mostra nel modo più palese: ieri capo di fatto della sinistra DS, oggi ritornato all'ovile con Fassino. Non è che ieri Cofferati era un socialdemocratico interno al movimento operaio e oggi è un liberale interno al campo borghese. Le cose sono più complesse, e pensare che oggi si possa semplicemente fare appello quei milioni dicendo "avete votato ieri per l'articolo 18, votate oggi per il polo autonomo di classe" significa non capire l'abc. Fra quegli 11 milioni ci sono molti elettori DS che hanno "disobbedito", è vero. Lo hanno fatto perché hanno capito la natura dello scontro e probabilmente anche per dare un segnale al loro stesso gruppo dirigente. Ma questo non significa che siano sull'orlo di una rottura con il loro partito. Le elezioni amministrative dimostrano l'esatto contrario, e quando arriveranno le politiche la spinta all'unità per battere Berlusconi sarà cento volte più forte. Si può fare finta di ignorarlo ora, ma al momento decisivo questa spinta ci ricadrà tutta addosso, e dobbiamo saperlo fin da subito.

Mesi fa Bertinotti parlava della prospettiva di dividere il Centrosinistra, di rottura col centro borghese. Questo ragionamento è stato poi completamente abbandonato. Abbiamo rinunciato a sviluppare questa indicazione trasformandola in una precisa proposta tattica, proprio quando le condizioni erano migliori, ossia quando c'era in campo un enorme movimento di massa che scuoteva i DS e l'Ulivo. Oggi le condizioni sono, almeno temporaneamente, più arretrate, ma è da lì che dobbiamo ripartire se vogliamo tentare di costruirci una seria interlocuzione con quei milioni di lavoratori che oggi non considerano il nostro partito un'alternativa credibile ai DS, anche se magari simpatizzano con alcune nostre battaglie come quella del referendum.

Può darsi che nella prossima fase il vento dell'"unità a tutti i costi" metta in difficoltà noi comunisti. È naturale, soprattutto perché c'è uno stallo temporneo nelle mobilitazioni di massa, che l'attenzione si concentri di più sul terreno elettorale, a maggior ragione dopo che il governo ha mostrato segni di difficoltà nelle amministrative. Dobbiamo saper unire la fermezza nei principi e nella difesa degli interessi di classe con la capacità di interloquire e dialogare con quei settori che onestamente cercano la massima unione di forze contro le destre. Dobbiamo saper spiegare la differenza abissale che c'è fra l'unità dei lavoratori in difesa delle proprie rivendicazioni, anche parziali, e l'"unità" che si vuole riaffermare, fra i lavoratori e i propri avversari di classe come Illy, Rutelli o Prodi.

Entriamo in un dibattito che può segnare una svolta importante nella vita del nostro partito. È un bene che tutte le posizioni e le articolazioni esistenti nel partito si stiano esprimendo apertamente a tutti i livelli. Sappiamo che la posizione che qui abbiamo espresso è fortemente minoritaria negli organi dirgenti del partito, ma siamo anche sicuri che tutti i compagni sono animati dalla volontà di tenere un dibattito sincero, senza ipocrisie e senza "perbenismi" e siamo certi che queste nostre osservazioni verranno considerate con spirito di apertura, avendo a cuore l'interesse comune di arrivare a una definizione politica, programmatica e organizzativa che possa contribuire a farci uscire dalla difficile situazione nella quale siamo entrati.

Claudio Bellotti
Direzione Nazionale PRC
Alessandro Giardiello
Comitato Politico Nazionale PRC
Roma - 4 Luglio 2003