Le autonomia locali

Settima lezione della Scuola di politica con Giancarlo Piombino e Giuliana Cornetti

Il mondo delle autonomie locali non è un universo separato dal più vasto orizzonte nazionale. Eppure, a volte, è proprio la politica nazionale che ha trascurato di dare seguito ad un potenziamento delle istanze periferiche del complesso apparato dello Stato.

La Scuola di politica affronta, dunque, il tema della "politica locale". Giuliana Cornetti, professoressa di diritto e capogruppo in Consiglio provinciale per Rifondazione Comunista, e Giancarlo Piombino, Marco Sferini e Giuliana CornettiGiancarlo Piombino, già sindaco della città di Genova, siedono al tavolo della Sala Rossa per illustrare il sottobosco istituzionale del decentramento amministrativo della Repubblica.

Innanzi tutto sfogliamo, ancora una volta, la nostra Costituzione: articolo 5: "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento".

Un grande balzo in avanti viene fatto nel 1946-48 - afferma la professoressa Cornetti - visto che la legislazione dell'Italia post-unitaria e sabauda, pervasa anche da un timore di compromissione della panitalianità appena raggiunta, si guardò bene dal concedere ai singoli territori particolari garanzie di gestione della "res publica".

Durante tutto il corso, dunque, della storia del Regno d'Italia le autonomie locali non sono state protagoniste di una stagione espansiva, ma di un gelo invernale, di un rattrapimento all'interno di uno Statuto albertino che centralizzava tutto quanto gli era possibile. Siamo, pertanto, lontanissimi non solo dall'idea che i Costituenti ebbero nel dopoguerra, ma diametralmente sul crinale opposto rispetto al federalismo di Carlo Cattaneo, a quella Italia un pò bislacca che avrebbe dovuto essere costituita da tanti popoli (non da uno solo...) e, conseguentemente, da una confederazione di Stati.

I fenomeni separatisti hanno costellato la storia del nostro Paese sin dalle origini: dalla "causa legittimista" borbonica alle rivendicazioni clericali di Pio IX; dalle tendenze indipendentiste della Sicilia alle richieste pressanti di forte autonomia del Sud Tirol che non trovavano risposta neppure dall'articolo 6 della Costituzione: "La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche".

Venendo un pò in qua con gli anni, per la precisione nel 1990, ci accorgiamo come sia stata la Legge Giancarlo Piombino e Marco Sferini142 a definire una vera e propria nuova fisionomia degli enti locali. La stessa rimodulazione dei settori di competenza, la riorganizzazione integrale degli apparati amministrativi, hanno costretto lo Stato a fare nuovamente i conti con l'esigenza di ridare fiato ad un decentramento che non poteva più essere claustrofobicamente ristretto nelle maglie delle decisioni del solo governo centrale.

Si è così creata una rete di sinergie istituzionali che ha reso partecipi i comuni della Repubblica negli esperimenti delle "aree metropolitane". Nel 1997, con la Legge Bassanini "2", viene introdotto il criterio della "sussidiarietà", mutuato dalla Costituzione e che permette un ancora più allargato decentramento delle istanze di governo locale.

Il tutto va visto - precisa Giuliana Cornetti - nell'ambito di un'Europa che si organizza con dei trattati il cui merito è prevalentemente di stampo economico, ma che impongono comunque ai singoli stati membri la necessità di adeguarsi alle regole comunitarie.

Ed ecco, pertanto una nuova spinta in avanti per colmare tutti quei vuoti che vi sono sino ad allora stati: la sussidiarietà, infatti, permette all'ente superiore di infiltrarsi laddove un dato ente non riesce ad arrivare e a soddisfare determinati bisogni dei cittadini, della collettività.

Questo mutuo soccorso amministrativo è frutto di una logica che il legislatore ha introdotto per rendere più diretto il contatto tra lo Stato e la gente. Un impianto di formulazione della gestione del potere locale che ha mirato anche all'introduzione di capitoli di risparmio delle spese pubbliche laddove questo era fattibile e concretizzabile. Razionalizzare le norme e con esse anche i bilanci. Un progetto lodevole che, purtroppo, spessissimo ha incontrato intralci di tipo burocratico e vere e proprie pandemie di scontri tra norme inferiori e superiori ed è caduto nel rigor mortis della peggiore burocrazia.

La volontà era quella di dare vita a degli "enti locali virtuosi", capaci di essere reattivi nella loro massima espressione senza ostacolare altre istanze, senza dover pesare sulle casse dello Stato o di qualche altro ente. La realizzazione fattiva di tutto ciò aspetta ancora una verifica: i tempi sono Giuliana Cornettiultradecennali, e quindi tra non molto forse potremo avere un quadro più esaustivo di ciò.

Giancarlo Piombino introduce un elemento di riflessione intorno al modello di sviluppo della politica degli enti locali. I nostri, ad esempio, sono nati e cresciuti all'ombra della tipologia francese: ossia la concezione secondo la quale è lo Stato direttamente che stabilisce i limiti entro cui l'ente locale può operare. La Costituzione, infatti, divide la Repubblica in Regioni, Province e Comuni e dota ognuno di questi enti territorial-governativi di uno statuto, ossia di un carnet di leggi che non possono in nessun caso trovarsi in una situazione di contrasto con la legislazione formulata dal Parlamento e, prima ancora, con i dettami della Carta del 1948.

È il principio di "adeguatezza", che uniforma a cascata tutte le norme: dalla Costituzione sino al più minuscolo degli incartamenti comunali o di municipio / circoscrizione.

Oggi abbiamo in Italia, cita testualmente l'ex sindaco di Genova, ben 8.103 comuni. Sono un centinaio in più rispetto a qualche decennio fa. Sono anche nate nuove province, mentre il numero delle regioni - se si esclude la separazione tra Abruzzo e Molise - è rimasto praticamente invariato.

Un quarto dei comuni della Repubblica ha meno di 2.000 abitanti. Si potrebbe dunque porre il problema di una semplificazione dell'apparato amministrativo, di un accorpamento dei territori e, pertanto, di un minore capitolo di spesa per l'intera gestione statale e locale.

Potrebbe essere, indubbiamente, un tema pertinente. Tuttavia il bilancio dello Stato non va in rovina per foto di Anna Giudicela presenza di un centinaio di comuni di troppo. Soprattutto se le risorse di questi riescono con qualche sforzo a coprire le necessità della comunità di base che si trovano ad amministrare. Scongiurato questo problema, resta in campo la necessità di mantenere la più vasta autonomia possibile sul territorio, affinché le soluzioni ai bisogni dei cittadini siano ricercate sempre più nell'ambito locale e non demandate al decisionismo di chi, non per colpa, può non avere conoscenza diretta dei territori.

Maggior decentramento e migliore amministrazione. Entrambi i relatori si trovano concordi: questo binomio è alla base dell'ispirazione legislativa italiana in materia di autonomie locali. Tocca alle comunità "di base" del territorio respingere le tentazioni burocratiche provenienti da più alti livelli della macchina statale e riuscire così a costruire il proprio futuro in una culla di armonia che consenta al centro e alla periferia di non viversi come nemici-amici, ma come semplici, onesti collaboratori per quel "bene comune" che sovente ha le sembianze di un'araba fenice.

Marco Sferini
Savona - 3 Aprile 2007