I partiti politici: chi sono costoro?

Terza lezione della Scuola di politica con Giovanni Bianchi e Nanni Russo

Lezione sui partiti politici alla scuola organizzata da Rifondazione Comunista e dalla Margherita di Savona. Giovanni "Nanni" Russo, ex senatore dei Cristiano Sociali-Ds e Giovanni Bianchi, deputato della ex Democrazia cristiana e già presidente nazionale delle Acli, i relatori che hanno illustrato il tema della serata. Sfogliando la Costituzione, ha iniziato Russo, e leggendo l'articolo 49 ci si immerge nel sistema democratico nazionale che si fonda e si articola sulla libera associazione che significa spirito di iniziativa volto alla determinazione della storia del Paese. Mediante quale strumento? I partiti prima di tutto. I partiti politici come sale della democrazia, testimonianza di una volontà di aggregazione per arrivare a determinare un fine di breve, medio o lungo termine. Il tutto sempre legato imprescindibilmente all'interesse collettivo, allo sviluppo della complessa comunità nazionale.

Ma sarebbe fuorviante, afferma l'ex senatore, concepire la "forma-partito" come un clichè immodificabile, sempre uguale a sé stesso, e determinante quindi un modello non alterabile nei meriti e, soprattutto, nei metodi. Pensiamo al partito fascista: la Costituzione comprende l'articolo che abbiamo citato, il 49enismo, e comprende anche nella XII Disposizione finale un ammonimento alla ricostituzione "sotto qualsiasi forma" del disciolto soggetto politico fondato da Benito Mussolini. Costituzione schizofrenica? Niente affatto. Frutto delle vicende storiche, si può dire. Ed infatti nessuno nega l'ispirazione antifascista della Carta fondamentale dello Stato. Perchè proprio qui sta la discriminante, se così possiamo definirla: i padri costituenti avevano osservato come anche un partito politico potesse divenire così condizionante per le istituzioni e per la società, da travalicare i normali rapporti tra un ente di potere e un soggetto di lotta sociale. Nel corso dei venti anni di dittatura, il Pnf si fece largo tra le maglie dell'organizzazione statale e divenne esso stesso un indiretto organo e strumento di direzione del Paese. Una degenerazione totalitaria per un partito che totalitario era e voleva essere, e che ha limitato le prerogative delle camere e che ha consentito al fascismo di affermarsi come unica cultura politica legittimata ad esistere e ad essere condivisa - liberamente o meno... - dalla popolazione italiana.

Ed allora, attenzione anche al modello partitico: non è di per sè uno strumento perverso, ma è facilmente adoperabile per i propri scopi personali, lontani anni luce dall'originaria declinazione al servizio della collettività e del sociale. Esempi ce ne sono, purtroppo, anche oggi: si pensi a partiti che nascono non tanto su monotematicità, ma su monocrazie dettate da un esaltazione della managerialità e dell'impresa che basa tutta sé stessa sulla cultura del "self-made-man" e che vivono e si autoalimentano solo esclusivamente per difendere i privilegi di pochi intoccabili e camaleontici signori che, con tutta disinvoltura, trasvolano dalle scrivanie delle loro fabbriche a quelle del Parlamento e del governo. Anche questa è una malattia che può colpire un partito e che, si osservi la nostra storia recente, è congenita alla nascita del patto politico che l'imprenditore mette in campo, "concedendo" sè stesso a questo nuovo modo di amministrare le proprie risorse cercando di proteggerle dalla concorrenza e sfidando così le stesse leggi di quel mercato che invece dovrebbe regolare l'anarchia merceologica e le crisi cicliche dell'economia.

Giovanni Bianchi precisa subito di intervenire legando le sue parole alla relazione di Nanni Russo. "Io vengo da Sesto San Giovanni", è il suo incipit ed è anche la sintesi estrema di quanto dirà: la "Stalingrado" d'Italia, un pezzo di Nord industrializzatissimo, egemonizzato dalle forze operaie della sinistra, ultrasindacalizzato. Un paese-fabbrica più che tante fabbriche di paese. Bianchi fa un pò di amarcord, e le sue parole fanno respirare l'atmosfera degli anni '50 e '60, delle lotte per l'affermazione dei diritti dei lavoratori, della necessità di avere dei partiti che fossero non dei ricettacoli di intellettuali dediti alla mera speculazione filosofica, ma dei veri e propri agglomerati, delle masse politiche consapevoli di quanto proponevano e cercavano con la loro presenza nelle piazze e nelle istituzioni repubblicane.

L'excursus storico non può non lambire i confini della vita dei due più grandi partiti politici italiani mai esistiti: la Democrazia cristiana e il Partito Comunista Italiano. Chiunque oggi ne osservi la storia, non può fare a meno di verificare che questi due interpreti di opposte visioni e concezioni della trasformazione sociale e della gestione della stessa società, fossero anche due argini di tenuta per una democrazia sempre a rischio, con revanchismi fascisti nell'ombra delle pieghe del potere, con alle spalle la "protezione americana" e in faccia il "pericolo sovietico". Giovanni Bianchi lo dice apertamente, da cattolico democratico: il legame che rendeva massificati questi due partiti era per la Dc la simbiosi con la Chiesa, e per il Pci la tensione fattiva e l'unità con quel proletariato urbano e contadino che avrebbe saputo scrivere pagine di alta cultura della libertà, in difesa dei valori contenuti nella giovane Costituzione firmata da Terracini e da De Gasperi.

L'inglorioso tramonto dei partiti di massa, creato da una classe dirigente immersa nella corruttela e nel tradimento proprio dei valori appena citati, non determina la fine dei partiti. Ne ha creato una immagine stereotipata: laddove si parla di partito sovente si crea il sinonimo di tutto ciò che ricorda affari sporchi, collusioni con la mafia, la camorra, e le strutture deviate dello Stato. Accanto a queste proiezioni mentali, andrebbe sempre ricordato che non è lo strumento-partito a determinare una situazione di affarismo antisociale o un altro qualsiasi danno alla comunità dei cittadini. Ma unico responsabile è chi quello strumento adopera, chi lo gestisce e lo ricostruisce a sua immagine e somiglianza. Altrimenti la banalizzazione è repentina nell'impadronirsi della politica e a trasformare i pensieri di noi tutti in meri qualunquismi. E se c'è una forma anti-partito e anti-politica, questa è proprio la generalizzazione che provoca un fascismo strisciante, una propensione all'indistinzione che non riconosce le differenze, che annienta quella democrazia delle differenze che si esprime nelle tutele, nel rispetto di tutti e di ognuno.

Marco Sferini
Savona - 6 Febbraio 2007