La flessibilità ovvero la negazione del diritto al lavoro

La parabola dei diritti dei lavoratori

Fino agli anni '50 le imprese potevano scegliere liberamente se assumere i lavoratori con contratto a termine o con contratto a tempo indeterminato e potevano licenziare anche i lavoratori assunti a tempo indeterminato senza dover addurre nessuna motivazione, con un breve preavviso.

Nel corso degli anni '60 e '70 la stabilità del posto di lavoro fu progressivamente rafforzata, in particolare, da tre leggi: L.230/1962 (limitava a cinque casi ben precisi la possibilità di stipulare un contratto a tempo determinato); L.604/1966 (subordinava il licenziamento al sussistere di una giusta causa o di un giustificato motivo, nelle imprese con più di 35 dipendenti); L.300/1970 ("Statuto dei lavoratori": oltre a "far entrare la Costituzione nei posti di lavoro", col diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo rendeva "reale" la tutela dei lavoratori, nelle imprese con più di 15 dipendenti: art.18).

Questo insieme di tutele viene sottoposto ad un processo prima episodico e lento, poi sistematico e velocizzato di smantellamento.

Nel 1978 viene parzialmente estesa per la prima volta la possibilità di stipulare contratti a termine per i giovani (legge cd. "sull'occupazione giovanile"), nel 1984 vengono introdotti i "contratti di formazione - lavoro" che estendono sensibilmente questa possibilità.

Negli anni '90 la flessibilità viene assunta dai sindacati confederali come un elemento che favorisce l'occupazione e, a seguito della politica concertativa, viene inserita negli accordi Governo - Sindacati - Confindustria del 1993 (quello della "politica dei redditi") e del 1996 ("Patto per il lavoro"). Quest'ultimo si traduce nel "pacchetto" Treu (L.196/1997), che nell'ambito della politica di concertazione, tipica dei governi di centrosinistra, diventa sostanzialmente un passo obbligato. Esso introduce, tra l'altro, il lavoro interinale, sia pure (come sottolineò il "Sole-24 ore") "mettendolo in gabbia": era regolamentato in modo che non potesse essere utilizzato in agricoltura e nell'edilizia e poteva riguardare lavoratori almeno del 5° livello. Nel 1999, a seguito delle pressioni, forse non necessarie, dei sindacati, il lavoro interinale fu esteso ai settori lavorativi per i quali era escluso ed ai lavoratori di 2° livello dal governo D'Alema.

Poi, col governo Berlusconi, il diluvio: D.lgs. 6/9/2001, n.368/2001 sul contratto a termine; D.lgs. 8/4/2003, n.66/2003 sull'orario di lavoro e D.lgs. 10/9/2003, n. 276/2003, attuativo della L. 14/2/2003 n.30 sul mercato del lavoro travolgono qualsiasi parvenza di diritto per i lavoratori. L'obiettivo dichiarato, nel più completo ossequio della globalizzazione capitalistica, è quello di rendere l'Italia più accogliente possibile per il capitale finanziario nei suoi flussi internazionali, proponendosi come oasi di flessibilità assoluta ("il paese più americano", come lo ha definito raggiante Berlusconi durante il suo pellegrinaggio negli USA).

Come è facile constatare, l'andamento dei diritti dei lavoratori segnala con precisione lo stato dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Basti ricordare che nel periodo ascendente (anni '60 - '70) le lotte dei lavoratori ottennero, attraverso i rinnovi contrattuali, anche sensibili aumenti del salario reale e la riduzione dell'orario di lavoro, mentre a partire dalla seconda metà degli anni '70 iniziarono gli attacchi alla scala mobile ed al salario, che si velocizzarono negli anni '80, ed in particolare negli anni '90. Così come non è un caso che la riforma delle pensioni che introduceva un sistema pensionistico a ripartizione e con sistema di calcolo retributivo (appunto ciò che viene smantellato nel 1995 da Dini e che oggi è di nuovo sotto attacco!) venga varata nel 1969.

Le conseguenze della flessibilità/precarietà del lavoro

La precarietà del lavoro, determinata dalla flessibilità del mercato del lavoro, produce conseguenze devastanti per la qualità della vita dei lavoratori e innesca processi che si riflettono in negativo sulla qualità e quantità dei servizi sociali, sulle pensioni e sul processo produttivo.

In particolare determinano:

Gli anni '90

Nel primo paragrafo sulla "parabola legislativa" si è già vista la progressione della precarietà del lavoro a partire dagli anni '90, dopo che le confederazioni sindacali hanno assunto la flessibilità del lavoro come necessaria ai fini dell'aumento dell'occupazione, effetto mai dimostrato, né dimostrabile, ma aspetto centrale dell'ideologia neoliberista.

[Lo stesso Pietro Ichino, illustre giuslavorista dell'area "liberal" dell'Ulivo, deve riconoscere questa semplice verità, pur essendo un acerrimo avversario dell'art. 18, al punto da aver ispirato, in qualità di esperto del governo D'Alema, un disegno di legge che "Il Sole-24 ore" del 7/9/98 definiva in termini entusiastici ("Una riforma di ampio respiro è stata messa a punto dal senatore Franco Debenedetti DS, che propone una nuova disciplina del recesso: un unico regime che riduca l'inamovibilità del lavoratore e la rigidità nella tutela contro il licenziamento individuale... in sintesi... in prima fila cadrebbe la disposizione che vieta il licenziamento se non per giusta causa o giustificato motivo. In cambio, viene previsto un lungo preavviso di licenziamento, da 6 a 12 mesi per i lavoratori subordinati di aziende con più di 15 dipendenti e da 3 a 6 mesi in tutti gli altri casi..., con il pagamento di un'indennità"). Infatti, in un recente volume ("Non basta dire no", Mondatori 2002) ammette che "i risultati della ricerca economica non consentono di affermare che a un aumento della libertà di licenziamento corrisponderebbe né una riduzione del nostro tasso di disoccupazione né un aumento della competitività delle nostre imprese"].

Da questo punto di vista, le politiche del governo di destra si pongono in continuità con quelle del Centrosinistra.

Ci sono, tuttavia, significativi elementi di differenza, che hanno contribuito a produrre il cambiamento di rotta della CGIL rispetto alle tematiche relative ai diritti. In particolare:

Le differenze, quindi, non sono solo quantitative, ma anche qualitative. Restano comunque gravissime le responsabilità del Centrosinistra e dei sindacati: a) per le politiche di precarizzazione del lavoro che hanno aperto la strada all'opera di macelleria sociale della destra; b) per la devastazione culturale che hanno prodotto tra i lavoratori avallando tutti gli assi centrali del pensiero unico neoliberista.

La destra deregolamenta il lavoro

Quando si parla di salto qualitativo e quantitativo della flessibilità e precarizzazione del rapporto di lavoro (la tipologia contrattuale) e della prestazione lavorativa (l'organizzazione materiale del lavoro), ci si riferisce ai tre decreti già citati nel paragrafo 1.

Il decreto legislativo 276/2003, applicativo della legge 30

Si tratta di un provvedimento molto invasivo e minuziosamente sistematico nel regolare la deregolamentazione del rapporto di lavoro. Infatti, non si limita a sistematizzare in modo ossessivo-maniacale il lavoro precario (arrivando a costituirne un vero e proprio Testo Unico), ma interviene anche sull'organizzazione del mercato del lavoro, sul ruolo del sindacato e sull'art. 18.

In questo modo siamo entrati nella parte più ampia del decreto, quella dedicata alla minuziosa (de)regolamentazione dei rapporti di lavoro. Si è già fatto riferimento al messaggio inequivocabile di mercificazione del lavoro, che si accompagna ad una concezione della precarizzazione come condizione inevitabile ed accettata della nuova economia. Si tratta, dunque, di un provvedimento pericoloso, oltre che per i suoi perniciosi contenuti, anche per l'operazione culturale che si propone di far passare.

Non a caso, a fronte degli attacchi della destra è maturata una forte tenuta della CGIL in materia di diritti dei lavoratori, che si è espressa nel rifiuto di firmare gli "avvisi comuni" in materia di contratto a termine e di orario di lavoro, oltre che il "Patto per l'Italia", nell'invito a votare SI al referendum per l'estensione dell'art. 18 e nella produzione di una preziosa ed ampia documentazione di analisi critica e di denuncia dei contenuti del decreto 276/2003.

Nei successivi paragrafi cercherò di sintetizzare le caratteristiche delle forme contrattuali introdotte o modificate dal decreto legislativo (da notare che il complesso delle tipologie contrattuali, considerando le articolazioni che possono assumere i contratti qui trattati, assommano a più di 40!).

Questa sintesi, insieme alle ipotesi di intervento in sede sindacale o/e giudiziale, è tratta da un ampio documento scritto, nell'ottobre scorso, dal giurista Piergiovanni Alleva per l'Ufficio giuridico della CGIL, dal titolo "Ricerca e analisi dei punti critici del decreto legislativo 276/2003 sul mercato del lavoro".

L'autore individua due aree tematiche nel decreto:

  1. la separazione del lavoro dall'impresa, cioè le possibilità che offre agli imprenditori di utilizzare lavoratori senza assumere le relative responsabilità ed i doveri che normalmente ne conseguono;
  2. la sistematizzazione, tipica di un Testo unico, del lavoro precario.

La separazione del lavoro dall'impresa

Essa prende vita dall'abrogazione della legge n. 1369/1960 operata dall'art. 85 del decreto. Quella legge stabiliva il principio secondo il quale è datore di lavoro chi utilizza effettivamente le prestazioni lavorative. Principio che impediva: a) la somministrazione di lavoro altrui (il formale datore di lavoro assume il lavoratore al solo scopo di "affittarlo" ad un altro imprenditore - utilizzatore), cioè la fornitura di lavoro"da organizzare"; b) l'appalto di manodopera (il formale datore di lavoro dirige e organizza le prestazioni dei lavoratori, ma al fine di realizzare un servizio, o una fase produttiva, a favore di un imprenditore - committente - utilizzatore), cioè la fornitura di lavoro "organizzato". In particolare era vietato l'appalto di sola manodopera. Infatti, per essere legittimo, l'appalto doveva prevedere, oltre all'utilizzo della manodopera, anche l'impiego di attrezzature, capitali, mezzi dell'appaltatore (in questo caso i lavoratori dipendevano effettivamente dall'appaltatore e non, come nel caso di appalto di sola manodopera, dal committente - utilizzatore).

Questa tutela è stata incrinata dall'introduzione del lavoro interinale, che però costituiva un'eccezione, con una serie di garanzie formali, relativa solo alla somministrazione di lavoro "non organizzato" a tempo determinato. Il D.lgs.276, invece, cancellando la L. 1369/1960, apre la strada sia alla somministrazione che all'appalto di lavoro.

La somministrazione di lavoro è imperniata su 2 rapporti contrattuali paralleli: 1) tra agenzia di somministrazione e impresa utilizzatrice (contratto di somministrazione di lavoro); 2) tra lavoratore ed agenzia (contratto di lavoro somministrato).

Le agenzie di somministrazione di lavoro sostituiscono le agenzie interinali, infatti "somministrano" lavoro ad imprese che lo utilizzano, ma il contratto di somministrazione di lavoro può essere sia a tempo determinato che a tempo indeterminato ("staff leasing", per esigenze continuative dell'impresa utilizzatrice). Secondo la vecchia normativa, il lavoro interinale era, pareva per sua natura, a tempo determinato, invece il lavoro somministrato può essere anche a tempo indeterminato. In astratto, sarà possibile che un lavoratore operi per tutta la vita in un luogo di lavoro senza essere dipendente dell'impresa che lo gestisce! Così come sarà possibile che un imprenditore non sia datore di lavoro di nessuno dei lavoratori che operano nella sua azienda!

Occorre garantire, facendo leva su argomentazioni contenute nel decreto stesso, che al contratto di somministrazione a tempo indeterminato corrisponda, presso l'agenzia, un lavoratore assunto a tempo indeterminato dall'agenzia stessa, evitando, invece, che ad esso corrisponda un susseguirsi infinito di lavoratori "somministrati" a tempo determinato. Si aprirebbero, così, gli spazi per una trattativa sindacale rivolta a disciplinare lo status giuridico - economico del lavoratore dipendente a tempo indeterminato dell'agenzia. Inoltre, è possibile che, in questo caso, l'imprenditore - utilizzatore finisca con l'assumere quel lavoratore, visto anche che gli costerebbe più di un suo dipendente (il lavoratore "somministrato" ha diritto ad una retribuzione pari a quella dei dipendenti dell'utilizzatore, che però, per garantirsi i vantaggi della separazione del lavoro dall'impresa, dovrebbe pagare anche il profitto incamerato dall'agenzia).

L'appalto di lavoro è l'istituto più pericoloso ai fini della realizzazione della scissione del lavoro dall'impresa, dato che: 1) non sono previsti per l'appaltatore i requisiti previsti per l'agenzia; 2) non esiste il diritto alla parità di trattamento per il lavoratore "appaltato" rispetto ai dipendenti del committente - utilizzatore.

La fornitura di lavoro "organizzato" prevede l'utilizzazione di "mezzi" da parte dell'appaltatore, ma il decreto 276 stabilisce che organizzazione di mezzi possa essere anche l'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto (ad esempio, una squadra di operai magazzinieri guidata dall'appaltatore - capo magazziniere, libera il committente - utilizzatore da ogni responsabilità ed obbligo giuridico).

L'art, 84, però, prevede la possibilità per i sindacati di verificare l'esistenza di una reale organizzazione di "mezzi". Essi devono consistere in beni strumentali o capitali investiti. C'è, quindi, la possibilità per i sindacati di intervenire per definire una rigorosa piattaforma in materia di appalti.

La modifica della disciplina del trasferimento del ramo d'azienda determina un'altra situazione di scissione tra lavoro ed impresa. Spesso, infatti, tale trasferimento tende semplicemente alla "esternalizzazione" di una parte dell'attività di impresa ad un soggetto non indipendente dall'imprenditore cedente, come quando il cedente è l'impresa principale ed il cessionario è un'impresa ad essa collegata (ad esempio, un imprenditore costituisce una nuova società e poi le cede un suo reparto). In tal modo, anche prima si poteva aggirare l'art. 18, ma, come abbiamo visto nel paragrafo 5, occorreva che sussistesse l'autonomia funzionale(si doveva trattare di un ramo d'azienda capace di stare autonomamente sul mercato).

Il decreto 276 prevede, non solo che l'autonomia funzionale non necessita più della preesistenza, ma anche che è sufficiente il suo riconoscimento da parte dei contraenti! È assolutamente chiaro l'intento di facilitare le "esternalizzazioni" del lavoro.

Ma pare attaccabile e contestabile in sede giudiziale e contrattuale. L'autonomia funzionale non può dipendere dalla volontà di parti private, ma è legata alla capacità di funzionare autonomamente.

Il "testo unico" del lavoro precario

Vengono regolamentati, in successione, rapporti precari di lavoro subordinato (lavoro intermittente, ripartito ed a tempo parziale), rapporti precari di lavoro subordinato e formazione (apprendistato e contratto di inserimento) e rapporti precari di lavoro autonomo (lavoro a progetto, occasionale ed accessorio).

Il lavoro intermittente

Il lavoro intermittente estremizza la condizione del lavoratore "a chiamata": è incerto, non solo il "quando" della prestazione lavorativa, ma anche il "se", configurando una situazione di massima invasività nella vita del lavoratore.

Il decreto, però, prevede il pagamento di una indennità di disponibilità "per i periodi nei quali il lavoratore... garantisce la disponibilità... in attesa di utilizzazione". Questa indennità è stata introdotta perché altrimenti si sarebbe rientrati nella tipologia del "part - time a chiamata", dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale con sentenza 210/92. L'indennità è il corrispettivo della invasività del tempo di vita del lavoratore e della sua possibilità di impegnare altrove le sue energie lavorative. Quindi, essa, proprio perché ha natura di corrispettivo dovrebbe rispondere al requisito richiesto dall'art. 36 della Costituzione ("Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione... .in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa"). Nel concreto va definita da un contratto collettivo, che potrebbe essere il C.C.N. per i lavoratori interinali a tempo indeterminato, che prevede la corresponsione di € 516 mensili, come indennità per i periodi che intercorrono tra una "missione" e l'altra. Dovrebbe, anzi, essere superiore, perché il rapporto di lavoro intermittente presuppone periodi assai più lunghi di inattività.

In conclusione, o il lavoro intermittente è incostituzionale, o prevede il pagamento di una indennità di disponibilità superiore a € 516, quindi diventa troppo costoso per un uso assai ristretto del lavoratore da parte dell'impresa.

Il lavoro ripartito

Il lavoro ripartito (job - sharing) è finalizzato ad aggirare l'art. 2110 del Codice civile che addossa al datore di lavoro il rischio dell'impossibilità temporanea delle prestazioni. Essa verrebbe riversata sull'altro lavoratore o sull'altra lavoratrice, che dovrebbe farsi carico della prestazione del partner in caso di malattia, infortunio o gravidanza. In caso di impedimento di entrambi il rapporto si estingue o si sospende senza oneri per il padrone.

Ma l'art. 2110 non scompare ed è difficile comprendere come possa restare estraneo ad un rapporto di lavoro, che resta pur sempre subordinato, senza problemi di costituzionalità. Le tutele normative della malattia e delle altre situazioni risale addirittura al XIX secolo.

Il decreto contiene anche alcune contraddizioni ed una norma per la quale la grave infrazione disciplinare commessa da uno dei partner farebbe perdere il lavoro anche all'altro.

In conclusione, è poco attraente , naturalmente per i lavoratori, ma anche per le imprese, che dovranno essere disposte ad affrontare il rischio di una inevitabile contestazione. Quindi, pare di difficile applicazione, in presenza di una pressione rivolta a garantire i lavoratori.

Il lavoro a tempo parziale

Il decreto, a questo proposito, contiene imponenti modifiche rispetto alla normativa precedente. Eccone alcuni esempi.

Nel part-time orizzontale (su tutte le giornate lavorative, ma ad orario ridotto), il lavoro supplementare (oltre l'orario pattuito) non può più essere rifiutato dal lavoratore se ne è prevista la possibilità dal contratto collettivo. Infatti, in caso di rifiuto, il lavoratore è sottoposto a sanzioni disciplinari (anche se non licenziato).

Nel part-time verticale (in alcune giornate della settimana, del mese o dell'anno) e nel part - time misto (combinazione dei due tipi: alcune giornate a orario ridotto ed altre a tempo pieno o non lavorate, nell'arco della settimana, del mese o dell'anno), le clausole flessibili e/o elastiche (modifica della collocazione oraria del lavoro e/o suo aumento) possono essere "concordate" direttamente tra padrone e lavoratore all'atto dell'assunzione e poi applicate con preavviso di 2 giorni. Il lavoratore può rifiutarsi di sottoscriverle, se successive all'assunzione, però rischia di essere sanzionato disciplinarmente (non licenziato).

Torna in campo il lavoro a chiamata, perché il part - time diventa un contratto per una certa quantità di ore predefinita, ma che il padrone può ricollocare temporalmente. Incombe, quindi, l'ipoteca del divieto di invasività (sentenza della Corte costituzionale n. 210/92, vedi quanto detto a proposito del lavoro intermittente), con maggiori difficoltà, perché qui viene predefinita la quantità di lavoro (part - time) e, quindi, l'invasività sarà legata all'entità della banda di oscillazione entro cui la "libera" pattuizione tra le parti consente al padrone di variarne l'entità. Prevede, dunque, maggiori poteri per "il datore di lavoro", ma con l'esposizione a rischi notevoli di vertenzialità.

I rapporti di lavoro di tipo formativo sostituiscono la vecchia normativa dell'apprendistato ed i contratti di formazione e lavoro (questi ultimi restano applicabili solo nella pubblica amministrazione).

L'apprendistato

La nuova disciplina dell'apprendistato va vista nel quadro retrogrado e reazionario delle scelte educative previste dalla "riforma" Moratti. Significativi, da questo punto di vista, sono persino le denominazioni dei tre tipi di contratto d'apprendistato che vengono regolamentate.

Contratto di apprendistato per l'espletamento del diritto - dovere di istruzione, per gli adolescenti di 15 anni, di durata non superiore ai tre anni, finalizzato al conseguimento di una qualifica professionale.

Contratto di apprendistato professionalizzante, per i giovani tra i 18 ed i 29 anni, che persegue la qualificazione attraverso la formazione sul lavoro.

Contratto di apprendistato per l'acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione, per giovani tra i 18 ed i 29 anni.

Il contratto di inserimento

Il contratto di inserimento Esprime il massimo grado di pericolosità. Si tratta di un contratto a termine di notevole durata (da 9 a 18 mesi) non rinnovabile tra le parti. È il contratto precario per eccellenza, anche perché destinato a tutti i lavoratori che si trovino (o finiscano) fuori dalla "cittadella" fortificata del lavoro subordinato tradizionale. L'elenco dei soggetti che possono essere assunti coincide, infatti, con le fasce più deboli del mercato del lavoro ed è pensato per marginalizzarli ulteriormente. Giovani tra i 18 ed i 29 anni, disoccupati di lunga durata tra i 29 ed i 32 anni, lavoratori di più di 50 anni privi di lavoro, lavoratori desiderosi di riprendere a lavorare e che non lavorino da 2 anni, donne di qualsiasi età residenti in zone in cui l'occupazione femminile è penalizzata, portatori di gravi handicap fisici, psichici o mentali.

Consente un inquadramento di ben due livelli più basso di quello corrispondente alle mansioni svolte, con esclusione dal computo dei livelli occupazionali.

L'inserimento lavorativo sarebbe garantito dal fatto che, per poter assumere una "seconda leva" di lavoratori con questo contratto, il padrone deve aver mantenuto in servizio, con un contratto a tempo indeterminato, almeno il 60% dei lavoratori della "leva precedente".Il fatto è che le eccezioni previste sono tali da depotenziare molto o annullare di fatto (per le imprese più piccole) quest'obbligo. Infatti, dal computo su cui si deve calcolare quel 60% vanno dedotti: i lavoratori dimissionari, quelli licenziati per giusta causa o durante il periodo di prova ed, in ogni caso, quattro contratti di inserimento non trasformati (una specie di franchigia!). Se era stato assunto un solo lavoratore, la mancata trasformazione del suo contratto non impedisce di stipularne un altro, e così via all'infinito!

Tuttavia il contratto di inserimento, come "condizione" ai fini dell'assunzione per il suo tramite, deve contenere un accordo riguardante l'attività formativa o di riqualificazione di cui il lavoratore potrà fruire. Se ne dovrebbe dedurre che se l'attività formativa in concreto mancasse, il contratto dovrebbe riqualificarsi in un normale rapporto di lavoro. Inoltre, le modalità di definizione dei piani individuali sono demandate alla contrattazione collettiva. Quindi la sua applicazione può essere contrastata ottenendo, in quella sede, un profilo alto per i piani di inserimento.

Seguono i rapporti precari di lavoro autonomo.

Il lavoro a progetto

Il lavoro a progetto costituisce anch'esso un istituto pericolosissimo. Il governo lo ha presentato come un rimedio rispetto agli abusi perpetrati attraverso i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che mascherano in realtà rapporti di lavoro subordinati. In teoria, secondo il decreto, ogni prestazione lavorativa corrispondente ad un'attività ordinaria (normale) del datore di lavoro dovrebbe dar luogo ad un rapporto di lavoro subordinato . Il lavoro a progetto (sostitutivo dei co.co.co) dovrebbe essere finalizzato al raggiungimento di un risultato specifico, che andrebbe a costituirne, appunto, il "progetto".

In realtà, però, il sussistere della subordinazione del lavoro dipende dal sussistere dell'eterodirezione e dei poteri di controllo da parte del datore di lavoro. Quindi, anche per il futuro esigenze temporanee potranno essere soddisfatte o con contratto a progetto o con contratto subordinato a termine. Inoltre, è sempre possibile suddividere un'attività continuativa in fasi intermedie cui far corrispondere altrettanti "progetti", organizzando una serie di contratti a progetto "a catena".

Sono, poi, previste eccezioni riguardo ad alcune categorie di datori (associazioni e società sportive dilettantistiche,ecc.) e di prestatori (iscritti ad albi professionali, pensionati di vecchiaia,ecc.), che possono stipulare contratti a progetto anche per attività continuative.

Infine, le disposizioni transitorie consentono di rinnovare le co.co.co esistenti, che possono restare valide per un anno, ed anche oltre sulla base di accordi aziendali.

Quanto ai "diritti" dei lavoratori a progetto, eccone alcuni esempi: si prevede la possibilità di inserire nel contratto individuale la facoltà di recedere anche prima della scadenza del termine; in caso di malattia, infortunio, gravidanza si ha la sospensione del rapporto senza corrispettivo; malattia od infortunio che comportino una sospensione di 30 giorni (o di 1/6 della durata del contratto) permettono al committente di recedere.

È prevedibile un proliferare della vertenzialità.

Se la collaborazione ha una durata complessiva non superiore a 30 giorni nell'anno solare e se il compenso non supera i 5.000 €, si definisce lavoro occasionale.

Il lavoro accessorio

le foto di questa pagina sono tratte
dallo speciale "Legge 30 il lavoro a pezzi"
uscito il 7 Novembre con Liberazione
Il lavoro accessorio riguarda: piccoli lavori domestici straordinari; assistenza domiciliare a bambini, anziani, malati, handicappati; insegnamento supplementare; piccoli lavori di giardinaggio o manutenzione. Possono svolgerlo: disoccupati da oltre un anno; casalinghe; studenti e pensionati; disabili e soggetti in attività di recupero; lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno nei 6 mesi successivi alla perdita del lavoro. I beneficiari acquistano presso le rivendite autorizzate "buoni" per prestazioni accessorie del valore di 7,5 €. Il lavoratore percepisce 5,8 € per ciascun "buono" consegnato agli enti o società concessionarie da individuare. Sono esenti da imposte. Versamenti INPS di 1 €, INAIL di 0,5 €, all'ente o società concessionaria 0,2 €.

Applicazione alla pubblica amministrazione

L'art. 1 c. 2 dice: "Il presente decreto non si applica per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale", ma l'art. 86 c. 8 dice: "Il Ministro per la funzione pubblica convoca le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche per esaminare i profili di armonizzazione conseguenti alla entrata in vigore del presente decreto legislativo entro sei mesi anche ai fini della eventuale predisposizione di provvedimenti legislativi in materia" e l'art. 86 c.9 dice che "nei confronti delle pubbliche amministrazioni..la disciplina della somministrazione trova applicazione solo per quanto attiene alla somministrazione di lavoro a tempo determinato".

Ipotesi di intervento per il boicottaggio della Legge 30

Sergio Casanova
Responsabile Regionale Formazione e Programma
Genova - 9 Dicembre 2003