25 luglio 1943, il giorno più lungo del fascismo

Intrighi di corte, cospirazioni gerarchiche nell'estate più amara per il regime di Mussolini

Tutti sappiamo, o dovremmo sapere, che la caduta del regime fascista avviene il 25 luglio 1943. Una data di quelle che divengono spartiacque della storia, che impediscono al passato di ricongiungersi pienamente col presente futuribile e che, pertanto, diventano elemento a parteDino Grandi inserito nel tutto. Per questo possiamo trattare del 25 luglio 1943 e, al contempo, collegarlo con singole vicende accadute prima e dopo e avere sempre come punto di riferimento la linea di confine che questa data rappresenta e che non smetterà di rappresentare.

Quel sabato sera di 66 anni fa, si riunisce il Gran consiglio del fascismo, l'organo supremo del partito di Mussolini. Si discute dell'andamento della guerra e, secondo l'ordine del giorno di cui era primo firmatario Dino Grandi, della riconsegna dei poteri costituzionali al re Vittorio Emanuele III. Per mesi i contatti tra il sovrano e le alte gerarchie del partito fascista sono andate avanti per risolvere l'enigma della destituzione del duce. C'è anzitutto una questione giuridica: i poteri di Mussolini sono così tanti, che il re non avrebbe nessuna possibilità di dichiararlo dimissionario o decaduto. Occorre che Casa Savoia si riappropri sia del potere esecutivo che di quello militare, altrimenti non esiste una strada percorribile per superare il fascismo e, con esso, il suo fondatore.

Mussolini è consapevolissimo di questa posizione di difficoltà del re e, comunque, conta anche sulla debolezza dei quadri del suo partito per continuare a mostrare la sua come l'unica guida possibile anche per un paese dove la distruzione dei bombardieri si fa sentire ogni giorno di più, dove il Sud inizia ad essere in mano agli alleati, dove ci si rende conto che non è possibile "fermarli sul bagnasciuga"...

La situazione appare in tutta evidenza disperata e, per questo, Mussolini convoca il Gran consiglio e lo fa non con la leggerezza di uno sprovveduto, di un ingenuo. È molto probabile che, come affermano anche numerosi storici, vi fosse una qualche intuizione circa le intenzioni di Grandi, Ciano e degli altri gerarchi che volevano mettere da parte il "fondatore dell'Impero", ma è parso altrettanto verosimile che Mussolini volesse evitare passaggi traumatici tra le fila fasciste e che, pertanto, intendesse realmente venire a capo della grave situazione italiana attraverso l'opinione del suo partito.

La riunione inizia intorno alle 17 e alle 23 non è ancora terminata. Dino Grandi, abile oratore, espone il suo ordine del giorno e riesce, nel chiedere al duce di rimettere il mandato del comando della forze armate al re, a fare anche uno sperticato elogio sia del sovrano che del dittatore. Carlo Scorza, segretario del PNF, è il più duro a replicare a Grandi, Bottai e Ciano. Volano parole forti: "traditori", "rinnegati". Si battono i pugni sul tavolo a ferro di cavallo, mentre Mussolini ascolta e, solo dopo molti interventi, prende la parola e afferma di non essere intenzionato a cedere il comando delle forze armate.

È evidente che l'ordine del giorno di Dino Grandi non è una mera sostituzione di persone alla guida di esercito, marina e aviazione. Si tratta della continuità del regime fascista o della sua trasformazione, del suo adeguamento ai tempi e ai rovesci della fortuna che si abbattono sull'Italia intera. Benito Mussolini e Dino GrandiMussolini non teme veramente un voto sull'ordine del giorno in questione. Un parere del segretario di Stato Santi Romano gli conferma che per il re qualunque decisione assunta dal PNF ha un valore consultivo e, dunque, non può rappresentare una minaccia.

Quando viene messo in votazione, l'ordine del giorno di Grandi ottiene 19 voti a favore, 8 contrari e 1 astenuto. Contro Mussolini, in sostanza, votano: Grandi, Bottai, Ciano, Federzoni, De Vecchi, De Bono, Gottardi e Cianetti (per citare i nomi più rappresentativi). Quest'ultimo, preso da un tumulto interiore, il giorno dopo scrive a Mussolini: è dispiaciuto del suo voto e lo ritira. Troppo tardi, ma almeno questo gesto di pentimento gli salverà la vita al processo di Verona, mentre tutti gli altri saranno fucilati da traditori, alla schiena.

Il giorno dopo Mussolini va a Villa Savoia, a colloquio con Vittorio Emanuele III. Il duce è sicuro di ricevere dal re piena fiducia, un rinnovo della stima politica e personale. Va detto che tra i due i rapporti erano sempre stati cordiali ma distaccati. Del resto Mussolini non aveva una gran stima di quell'uomo così poco virile, dalla bassa statura e tutto attaccato alla rigida etichetta di corte. È possibile che neppure "Sciaboletta" avesse una gran simpatia per quell'uomo apparentemente virile, donnaiolo, tutto proteso al comando e abile celatore di sentimenti dietro la maschera dell'arroganza e della prepotenza verbale e fisica.

Il colloquio tra i due non dura molto. Il re ordina al comandante delle guardie di stare dietro alla porta, armato di rivoltella e di tenersi pronto ad intervenire in caso di intemperanze di Mussolini. Mussolini mostra sbigottimento quando il re lo solleva dal suo incarico. "Tutto è perduto, allora", pare abbia sussurrato accasciandosi su una poltrona davanti al sovrano.

Poi il duce, con fare un po' sciatto, colpito in volto dalle parole di Vittorio Emanuele, esce da Villa Savoia. Chiama le guardie a sé, come protezione della sua persona, ma il capitano lo invita a non creare problemi e a salire su un'autoambulanza parcheggiata davanti alla villa. Mussolini entra non dopo aver protestato e con una certa riluttanza. La sera, in tutta Italia, Dino Grandi
Benito Mussolini e Dino Grandi
si apprende dalla radio che il nuovo capo del governo è il maresciallo Pietro Badoglio e che il re ha accettato dunque le dimissioni di Mussolini da capo del governo, primo ministro e capo delle forze armate.

Il valore consultivo di Santi Romano avrebbe potuto anche avere una ragione normativa, ma la storia ha travolto ogni valore, ha eliminato ogni paletto di parole e di regole. Quelle parole e quelle regole già stravolte dal fascismo vent'anni prima...

La radio lancia i famosi proclami...: "Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, presentate da S.E. il Cavaliere Benito Mussolini, e ha nominato Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, S.E. il Cavaliere Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio".

Il tono è perentorio, legalistico, sempre con un che di autoritario. Gli italiani sono abituati ad una voce marziale, cadenzata a passo romano o dell'oca. L'autoambulanza ha ormai lasciato Villa Savoia. È diretta segretamente fuori dal Lazio. Mussolini non lo sa ancora, ma sta per passare qualche settimana a Campo Imperatore, sul Gran Sasso. La gente per le strade porta in alto quadri di Badoglio, sventola le bandiere monarchiche e abbatte tutti i simboli del regime. Trascina giù le statue e i busti di Mussolini, scrive "W Badoglio" sui muri cancellando "Mussolini ha sempre ragione" o "Vincere!".

Per pochi attimi ci si illude che la guerra sia finita. Li rassicura presto il nuovo capo del governo: « [...] La guerra continua a fianco dell'alleato germanico. L'Italia mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni [...]». E poco importa se di lì ad un mese si firmerà l’armistizio. La guerra continua... Ma questa è un’altra storia...

Marco Sferini
Dicembre 2009