Il fascismo contro il cervello di Gramsci

Il primo grande processo politico della storia italiana

È Febbraio, precisamente il 7 del secondo mese dell'anno 1928, quando il Gran Consiglio del Fascismo diviene un organo centrale dello Stato italiano e, grazie al celebre Alfredo Rocco, ottiene una legge che lo legittima in quanto tale. Chi si era illuso, come Amadeo Bordiga, che il fascimo fosse quel temporaneo periodo speciale della nuova vita italiana postbellica, deve purtroppo ricredersi davanti agli atti violenti che il fascismo perpetra su tutto il territorio nazionale. Il movimento fascista non solo incendia e distrugge le sedi dei giornali dei lavoratori, le "case del popolo", le cooperative sociali, ma si scaraventa contro anche alle associazioni cristiane che vogliono rappresentare il mondo del lavoro e della socialità in generale. Il connubio tra monarchia e fascismo è una saldatura che garantisce il grande capitale italiano, che lo rafforza con il protezionismo interno delle merci e con il mito imperioso dell'italianità oltre le Alpi. Si sentono già gli sporchi odori della guerra che Mussolini farà contro l'Abissinia di Hailé Selassié. Ma, intanto, in Italia iniziano ad operare le neonate creature istituzionali del regime: il Gran Consiglio del Fascismo, per l'appunto, diviene il vero governo dello Stato e la massima espressione del Partito nazionale fascista, mentre il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato sostituisce la precedente magistratura del regno.

Benito Mussolini a Savona nell'attuale piazza MameliIn questo quadro di deflagrazione della democrazia istituzionale rientra quindi l'implosione della democrazia rappresentativa: nel Marzo sempre del 1928 la Camera dei Deputati approva quella che viene definita la "riforma della rappresentanza politica" e che consente al Gran Consiglio di nominare i candidati al Parlamento su indicazione delle corporazioni e, come poteva non mancare, dell'Associazione degli industriali italiani. Chi va a votare deve solo dire "sì" o "no" alla lista bloccata che gli si presenta innanzi. Questa legge omicida del sistema di voto democratico verrà resa effettiva nel mese di Maggio. Del resto, questa legge è una pura formalità autoritaria visto che, verso la fine del 1927 lo stesso Gran Consiglio aveva affidato sempre a Rocco il compito di stilare una norma elettorale che attribuisse il diritto di voto solo per "gli elementi utili e attivi della nazione". La carica di parlamentare, di deputato non è più nulla: la Camera dei Deputati non rappresenta che il volere del Partito fascista e, quindi, di Mussolini. Tutto è nelle mani del "duce".

La nuova magistratura del fascismo si mette dunque subito all'opera e mostra di voler far le cose in grande: il 28 Maggio del 1928, per l'appunto, si apre il primo grande processo politico della storia italiana. Sotto gli sguardi dei generali che compongono la corte di "giustizia" compaiono comunisti come Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni Roveda. Solo cinque compagni del gruppo dirigente comunista sfuggono alla morsa del fascismo: Camilla Ravera, Palmiro Togliatti, Giovanni Germanetto, Paolo Ravazzoli e Ruggero Grieco. Il fascismo non teme tanto il Partito Comunista, ormai ridotto a poche migliaia di militanti ancora attivi nella clandestinità (il minimo storico per il PCI), quanto quello che il pubblico ministero definirà il cervello a cui "per vent'anni dobbiamo impedire di funzionare".

Gramsci prima di essere introdotto nell'aula del tribunale, viene sottoposto a pressanti interrogatori della polizia fascista: lo accusano di sovversione verso i poteri dello Stato, di cospirazione. Lo accusano insomma di non essere fascista e questa accusa Gramsci la accetta. Purtroppo i documenti che ci sono giunti sul "processone" ai comunisti sono molto lacunosi. Possediamo, oltre ad alcuni verbali di polizia, solamente una trascrizione dell'interrogatorio fatto dal Tribunale Speciale, che venne vergato dal difensore Giuseppe Sardo. In aula Gramsci e gli altri compagni si difendono dalle accuse con grande compostezza, ma non risparmiano ai loro aguzzini la verità su cosa sia divenuta l'Italia, su come venga trattato il popolo e su cosa sia il fascismo.

Domanda il presidente del Tribunale (un generale delle forze armate, come ovvio) al capo dei comunisti: «Siete imputato di attività cospirativa, di istigazione alla guerra civile, di apologia di reato e di incitamento all'odio di classe. Cosa avete da dire a vostra discolpa?». Risponde Antonio Gramsci: «Confermo le mie dichiarazioni rese alla polizia. Sono stato arrestato malgrado fossi deputato in carica. Sono comunista e la mia attività politica è nota per averla esplicata pubblicamente come deputato e come scrittore de l'Unità. Non ho svolto attività clandestina di sorta perchè, ove avessi voluto, questo mi sarebbe stato impossibile. Già da anni ho sempre avuto sei agenti, con il compito dichiarato di accompagnarmi fuori o di sostare in casa mia. Non fui, così, mai lasciato solo; e, con il pretesto della protezione, fu esercitata nei miei confronti una sorveglianza che diviene oggi la mia migliore difesa. Chiedo che vengano sentiti come testi per deporre su questa circostanza il prefetto e il questore di Torino. Se d'altronde l'essere comunista importa responsabilità, l'accetto».

Gramsci conosce già la fine di questo processo: sa che nè lui nè gli altri imputati comunisti sfuggiranno al carcere, se non alla pena di morte. Tuttavia la sua difesa non è solo la difesa dell'uomo, ma anche quella del comunista che molto nettamente delinea perchè comunque il fascismo non ha scampo. Potrà anche avere un suo sviluppo ulteriore e, quindi, un suo apice ideologico, sociale e politico, ma intuisce il grande pensatore comunista che una tirannia come quella fascista ha la sorte segnata proprio dalla sua massima aspirazione: quella di portare il fenomeno bellico un pò ovunque, procurandosi così un'autoalimentazione che la soffocherà a poco a poco nonostante possa apparire forte, virile e sempre più diffusa - anche in altre forme, come quella franchista - nel globo.

Nessuno è profeta in patria, sostenevano gli antichi romani, ma Gramsci li smentisce proprio nelle parole che pronuncia innanzi ai suoi accusatori. È ancora il presidente del tribunale a parlare e ad incalzare il deputato comunista: «Tra gli scritti sequestrati si parla di guerra e di impossessamento del potere da parte del proletariato. Cosa vogliono significare questi scritti?». E qui Gramsci dà una risposta che può essere considerato il programma dei comunisti in vista delle catastrofi che il fascismo procurerà all'Italia: «Penso, signor generale, che tutte le dittature di tipo militare finiscano prima o poi per essere travolte dalla guerra. Sembra a me evidente, in tal caso, che tocchi al proletariato sostituire la classe dirigente, pigliando le redini del Paese per sollevare le sorti della Nazione». Parla con un filo di voce. S'eccita solo verso la fine dell'interrogatorio. L'hanno irritato alcune interruzioni del pubblico ministero. Rivolto ai giudici dice con veemenza: «Voi condurrete l'Italia alla rovina ed a noi comunisti spetterà di salvarla».

Il pubblico ministero Michele Isgrò parla nell'udienza del 2 Giugno 1928 e svolge una requisitoria violentissima contro i capi comunisti. Proprio quello di Antonio Gramsci è il cervello che vuol far smettere di funzionare: sa che ha davanti chi, se lasciato libero di pensare e agire, potrebbe procurare al regime grossi danni, se non addirittura un processo di caduta irreversibile. Le condanne sono pesantissime: Gramsci, Scoccimarro e Roveda a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di carcere, a Terracini ventidue anni, nove mesi e cinque giorni.

Gramsci non vedrà avverarsi la sua "profezia". Ma sarà proprio grazie all'apporto determinante dei partigiani e dei militanti comunisti, guidati da Togliatti e da Luigi Longo, se l'Italia potrà sbarazzarsi del nazifascismo e riconquistare quella libertà civile e sociale che Mussolini e le sue squadracce, complice la monarchia sabauda, gli avrebbero negato per venti lunghi strazianti anni.

Marco Sferini
Maggio 2003