Essere comunisti

Intervista ad Alberto Burgio

In base ai dati ottenuti all'ultimo CPN quella de L'Ernesto è risultata essere la seconda mozione congressuale. Un documento ampio e articolato che chiede un'inversione di tendenza a Rifondazione Comunista, che propone di riportare al centro della nostra politica la discussione dei programmi (per essere sintetici).

Abbiamo il piacere di parlarne con Alberto Burgio Professore ordinario di Filosofia all'Università di Bologna, membro del Comitato Politico Nazionale nonché Responsabile Nazionale Giustizia e Legalità del PRC.

Il VI Congresso di Rifondazione Comunista stabilirà senza alcun dubbio e senza alcuna ambiguità la linea politica del nostro partito per i prossimi anni. Quale dovrebbero essere, secondo la proposta congressuale che qui rappresenti, le strategie e le scelte future del PRC?

Parto da una breve premessa. Alberto BurgioCredo che un partito sia un soggetto politico, non una federazione di soggetti diversi. Questo implica che dovrebbe essere compiuto - da parte di tutti e in primo luogo da parte di chi reca le maggiori responsabilità nella direzione politica del partito - il massimo sforzo unitario per realizzare una sintesi tra le diverse sensibilità e posizioni. Ciò non per amore del compromesso, ma perché è interesse comune valorizzare i diversi apporti, e perché l'unità del partito è un bene in sé.

Questo è il motivo per cui abbiamo cercato, sino alla fine, di fare un Congresso unitario, su un documento a tesi emendabili, che avrebbe dato a ciascun compagno e a tutte le istanze del partito la possibilità di contribuire alla discussione e alla elaborazione della linea. Purtroppo, da parte della maggioranza dei compagni, si è optato per un Congresso a mozioni contrapposte. Abbiamo dovuto prenderne atto: ci auguriamo soltanto che questa scelta non generi un eccesso di conflittualità interna, di cui crediamo non si avverta alcun bisogno.

Detto questo, rispondo sulle "strategie e le scelte future" del partito, cominciando da quelli che secondo noi costituiscono i principali valori politici di riferimento per un partito comunista in Italia oggi: la pace; la sicurezza del lavoro, la piena occupazione e la difesa del salario; la ricostruzione dello Stato sociale. Pensiamo che le scelte del partito debbano discendere con piena coerenza da queste opzioni strategiche, da una parte tenendo conto delle condizioni reali (l'esigenza primaria di liberare il Paese dal governo Berlusconi e i rapporti di forza nell'ambito dell'opposizione), dall'altro non accettando compromessi sulle finalità strategiche, costitutive, del nostro essere comunisti. Come la FIOM dice che sui posti di lavoro non si vota, così noi diciamo che sulla pace e sulla sicurezza del lavoro non si discute.

In sede congressuale verranno affrontati diversi aspetti del nostro essere comunisti, ma è indubbio che l'accordo programmatico con le forze del Centrosinistra viene visto come il fulcro dell'intero dibattito. Una scelta impegnativa dettata dalla necessità di cacciare Berlusconi, una scelta che ha portato alla nascita della Grande Alleanza Democratica (GAD). Ma come sono conciliabili le nostre proposte con quelle dei partiti del Centrosinistra? L'accordo organico di governo è l'unica strada percorribile?

Indubbiamente la questione del governo sarà al centro della discussione congressuale e la cosa non può sorprendere, considerate le grandi sfide e responsabilità che ne derivano per il partito. Alla domanda sulla possibilità di conciliare le nostre proposte con quelle dei partiti del Centrosinistra rispondo cominciando dalla questione delle formule di alleanza (GAD, FED, Alleanza ecc.) via via escogitate.

Abbiamo sempre manifestato riserve sul modo in cui ci si è mossi su questo terreno, improvvisando decisioni senza discuterne nel partito, e comunicandole via via a mezzo di interviste giornalistiche. Non si è trattato solo di gravi forzature sul piano della democrazia interna, ma anche di scelte improvvide sul piano politico: perché - rovesciando quella che è sempre stata la regola del nostro agire politico - si è collocato il partito dentro un'alleanza prima ancora di cominciare la discussione sui programmi. Questo ci ha posto in una condizione molto difficile, poiché ha pesantemente ridotto la nostra capacità di incidere nella discussione programmatica tra le attuali forze di opposizione.

Ora occorre recuperare il tempo perduto, ponendo fine a inutili schermaglie procedurali che non interessano a nessuno e aprendo subito un confronto serio sul programma. Si tratta di fare pesare le nostre ragioni e di far valere la nostra indispensabilità: senza Rifondazione Comunista non si vincono le elezioni, e questo lo sanno bene anche i leader del Centrosinistra.

Ma si chiede: e se non dovessimo ottenere quello che riteniamo irrinunciabile? A questa domanda rispondiamo che, in tal caso, non dovremmo entrare in nessun governo. Uniti senza condizioni i nostri voti a quelli delle altre forze di opposizione per battere Berlusconi, dovremmo poi condizionare il nostro appoggio alle scelte concrete del nuovo governo.

Tuttavia lo ripeto: prima di arrendersi a tale non augurabile eventualità, la copertina della mozione Essere Comunistidovremmo fare di tutto adesso affinché si cominci subito a lavorare sul programma, e affinché in questa discussione Rifondazione Comunista faccia pesare con nettezza le proprie istanze. Il fatto che invece ciò non avvenga, che passino settimane e mesi senza minimamente discutere di quel che il futuro governo di Centrosinistra dovrebbe fare, costituisce una delle più gravi responsabilità degli attuali gruppi dirigenti delle forze di opposizione.

Nella costruzione dell'alternativa di società, che rimane il nostro obiettivo, un ruolo decisivo dovrebbero ricoprirlo le lotte sociali promosse dai movimenti. Ma in che modo riusciranno ad influire nella vita politica nazionale?

I movimenti sono stati sin qui uno dei grandi protagonisti dell'attuale fase politica. Da Seattle a Cancun, il movimento di contestazione della "globalizzazione" neoliberista ha rappresentato la più importante novità di questi anni e ha avuto il merito di generalizzare la consapevolezza della distruttività del capitalismo. A questo movimento si è affiancata la grande mobilitazione del popolo della pace, che ha riempito le strade e le piazze del mondo per manifestare la propria contrarietà alla politica imperialista degli Stati Uniti e dei loro alleati. In Italia, insieme a questi movimenti si è espressa la ritrovata forza del movimento sindacale confederale e di base, che ha contestato con vigore le scelte del padronato e del governo (tutte tese a radicalizzare l'offensiva contro i diritti del lavoro), e si è anche mobilitata l'opinione pubblica democratica, giustamente allarmata per l'attacco berlusconiano contro la Costituzione e lo Stato di diritto.

I movimenti hanno dunque svolto un ruolo molto importante nella riapertura dello scenario politico nazionale e internazionale. Ma è caratteristico dei movimenti un andamento discontinuo. Il loro carattere informale li espone a una naturale intermittenza. Si comprende così - per fare un esempio tratto dalla cronaca recente - il fatto che, dopo le grandi manifestazioni contro la guerra e contro la manomissione dello Statuto dei Lavoratori, la tragedia di Falluja, la promulgazione della Legge 30 e la controriforma berlusconiana delle pensioni siano potute avvenire senza grandi proteste di piazza.

Tutto questo ci dice che nulla sarebbe più errato che scaricare sui movimenti l'onere di tenere alto il livello del conflitto sociale e politico. Perciò siamo molto preoccupati quando sentiamo dire che ci si può (anzi ci si deve) accontentare di un buon "impianto generale" del futuro governo, visto che poi ci penseranno i movimenti a spostarne in avanti l'asse politico. Questo, che si presenta come un grande riconoscimento del ruolo dei movimenti, è in realtà l'atteggiamento più insidioso anche nei loro confronti, poiché affranca la politica dai compiti che le competono e scarica sui movimenti tutta la responsabilità di eventuali insuccessi.

Noi, al contrario, riteniamo che i movimenti vadano rispettati nella loro autonomia e al tempo stesso attivamente sostenuti dalle forze sociali e politiche organizzate (sindacati e partiti), che debbono assumersi per intero le proprie responsabilità. Non si può chiedere ai movimenti in quanto tali di modificare gli orientamenti dei parlamenti e dei governi o di tradurre le istanze sociali in decisioni politiche. Questo spetta ai partiti e alle istituzioni, che debbono farsene carico senza cercare alibi.

Per anni all'interno e all'esterno del nostro partito si è parlato di un progetto per la costruzione della "Sinistra Alternativa". Condividi questo progetto? La nascita della GAD non rischia di farne tramontare definitivamente la costituzione?

Condivido a tal punto l'idea della necessità di costruire la sinistra di alternativa che, quando (nel Settembre 2003) Rifondazione Comunista ha finalmente riaperto la questione delle alleanze per cacciare Berlusconi, sono stato tra quanti hanno con più forza sostenuto che il confronto con le componenti moderate del Centrosinistra avrebbe dovuto svilupparsi sulla base di un programma comune delle forze di alternativa. Abbiamo sempre detto che la elaborazione di un programma avanzato, condiviso dai movimenti, dalle associazioni, dai sindacati e dalle forze politiche di alternativa, avrebbe dovuto e dovrebbe essere il primo atto del processo di formazione di una nuova alleanza tra le attuali forze di opposizione.

Se si fosse proceduto in questo modo, si sarebbe fatta valere una grande forza: non solo il 13 per cento totalizzato alle Europee, ma anche le energie politiche della sinistra DS. Oggi saremmo in grado di condizionare l'elaborazione del programma di governo, ponendo vincoli precisi e concreti a garanzia di una reale inversione di tendenza non solo rispetto alle politiche praticate dalle destre, ma anche in relazione a quelle attuate dal Centrosinistra negli anni Novanta (nei confronti delle quali i gruppi dirigenti di DS e Margherita non hanno attuato alcuna seria autocritica).

Non si è voluto procedere in questo modo. Ricordo che le nostre proposte furono criticate - anche da autorevoli compagni - con argomenti alquanto speciosi: si disse che Alberto Burgio
la copertina della mozione Essere Comunisti
avremmo "ingabbiato" il partito dentro la sinistra di alternativa; si sostenne l'impossibilità di un confronto politico in "due tempi". Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la sinistra di alternativa è tuttora soltanto una creatura virtuale, incapace di pesare realmente nella discussione politica, e si corre seriamente il rischio che a definire il programma del futuro governo siano le componenti moderate del Centrosinistra.

Da questo punto di vista la proposta della GAD è un grave errore, perché promuove il costituirsi di un indistinto contenitore politico ("da Mastella a Bertinotti", come si usa dire assecondando la perversa tendenza alla personalizzazione della politica) nel quale Rifondazione Comunista e le altre forze di alternativa figurano come minoranze dotate di scarsa incidenza politica.

Negli ultimi mesi nel nostro partito si è discusso molto della politica della nonviolenza. Una nuova proposta identitaria vista come strumento necessario per la trasformazione della società. Questa scelta rappresenta un taglio netto con la storia comunista e quella del movimento operaio? Rinnega in qualche modo le lotte di liberazione dei popoli?

Premetto che questa discussione sulla nonviolenza è stata gestita nel peggiore dei modi. Si è assunto un tema di per sé meritevole di approfondimento e - invece di proporlo a una discussione partecipata affinché tutto il partito potesse misurarne l'importanza - lo si è subito agitato come uno strumento di divisione. Anche a non voler ritenere che si sia trattato di una precisa scelta di contrapposizione, questo modo di procedere nuoce al partito e alla qualità delle relazioni tra i compagni.

Detto questo, penso che il difetto principale della tesi nonviolenta per come viene fatta valere in questa discussione dai compagni che la propugnano è la sua astrattezza e genericità.

Di che cosa stiamo parlando? Della lotta politica in Italia oggi? Se è così, non c'è alcun dubbio: siamo del tutto persuasi della necessità di una lotta non violenta, come del resto dimostra tutta la nostra storia a partire dalla nascita della Repubblica. Per parlare di questi ultimi anni, non abbiamo mai civettato con le manifestazioni violente di alcune frange di movimento (dalle Tute bianche ai Disobbedienti), che hanno semmai trovato accoglienza presso altre componenti del partito.

Ma se la questione è posta in altri e più generali termini, non possiamo non manifestare serie perplessità. Dicevo dell'Italia repubblicana: ma la Repubblica nasce dalla lotta partigiana, che è stata necessariamente violenta perché si è trattato di combattere, armi in pugno, contro i fascisti e i nazisti. Ricordiamo questa lotta con riconoscenza e non crediamo affatto che essa sia stata edulcorata ("angelizzata", come dice qualcuno). È stata una lotta durissima, che ci ha restituito dignità e ci ha dato la democrazia: pensiamo forse che la si sarebbe dovuta combattere a parole o a mani nude?

Se poi guardiamo allo scenario internazionale, le perplessità aumentano. Faccio un solo esempio. Attaccando l'Iraq, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno invaso e devastato un Paese sovrano e massacrato oltre 100mila persone. Ora lo occupano militarmente, praticano ogni giorno la tortura, stuprano, terrorizzano, saccheggiano. Che cosa dovrebbero fare gli iracheni? Possiamo davvero dire loro che dovrebbero astenersi da qualsiasi forma di resistenza armata? Come si potrebbe pretenderlo? E come ci si potrebbe augurare che ciò accada, posto che - non appena fossero riusciti a "pacificare" l'Iraq - gli Stati Uniti provvederebbero in breve tempo ad attaccare altri Stati sovrani, causando altre tragedie e creando nuovi rischi per la pace mondiale?

Ho l'impressione che tutta questa discussione sulla nonviolenza rischi di portarci fuori strada: da un lato ci fa perdere di vista il fatto che non siamo noi a scegliere le forme della lotta; dall'altro, ci impedisce di comprendere che cosa succede nel mondo (quando si parla di "spirale guerra-terrorismo", cancellando la Resistenza irachena, si dimostra di avere un'immagine del tutto falsata di quanto avviene in Iraq) e di capire che cosa dovremmo fare per fornire la nostra concreta solidarietà ai popoli che lottano per la propria indipendenza e contro l'imperialismo.

Per chiudere. Perché un iscritto al VI Congresso di Rifondazione Comunista dovrebbe votare il documento da te sostenuto?

In sintesi, per tre motivi principali:

  1. perché - in coerenza con il principio prima i contenuti, poi gli schieramenti - fonda il confronto con il Centrosinistra su precise condizioni programmatiche, da cui fa discendere un eventuale accordo di governo; nel merito, consideriamo irrinunciabili cinque obiettivi: a. l'abrogazione delle leggi più reazionarie varate dalla destra (legge 30, Bossi-Fini, pensioni, Moratti, controriforma Castelli dell'ordinamento giudiziario); b. l'introduzione di una nuova scala mobile per il recupero automatico del potere d'acquisto di salari, stipendi e pensioni; c. una legge sulla rappresentanza e la democrazia nei luoghi di lavoro, come chiede la FIOM; d. l'istituzione di una "Agenzia per il lavoro" che si proponga di ridurre il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno; infine, come si diceva, e. l'impegno formale al rifiuto della guerra da chiunque dichiarata, Onu compresa (più che un punto tra gli altri, quest'ultimo punto costituisce una precondizione non eludibile: senza questo elemento di chiarezza - tanto più necessario in un contesto internazionale che con la rielezione di Bush tenderà ad aggravarsi - Rifondazione comunista non può accettare di entrare in nessun governo che non assuma un impegno preciso contro la guerra "senza se e senza ma");
  2. perché afferma la centralità del conflitto di classe tra capitale e lavoro, che molti anche a sinistra hanno dichiarato concluso o ritengono tutt'al più marginale: noi crediamo, al contrario, che il capitalismo viva in primo luogo sullo sfruttamento del lavoro, e rimaniamo comunisti perché consideriamo tuttora centrale la lotta per i diritti del lavoro e per la sua autonomia, in vista del superamento del capitalismo;
  3. perché sostiene la necessità di contrastare, sul piano culturale, le tendenze revisionistiche che da anni dilagano anche a sinistra rischiando di causare anche tra i nostri compagni un grave disorientamento. Non crediamo che il Novecento abbia lasciato dietro di sé soltanto un cumulo di macerie, né che i grandi dirigenti del movimento comunista del XX secolo (da Lenin a Gramsci) siano "morti anche politicamente". Pensiamo che - pur con i gravi errori che ne hanno compromesso lo sviluppo - le rivoluzioni operaie hanno prodotto la liberazione di milioni di persone e determinato grandi progressi anche nelle società capitalistiche; che la Resistenza antifascista è stata una grande lotta di popolo, che ha liberato l'Italia radicandovi una democrazia; e che i popoli hanno il pieno diritto di lottare contro l'imperialismo e per la propria indipendenza. Per questo oggi siamo al fianco dei palestinesi, di Cuba, del Venezuela e del popolo iracheno, di cui sosteniamo la Resistenza, augurandoci che essa si rafforzi e duri sino alla cacciata dall'Iraq di tutte le truppe straniere di occupazione.

Marco Ravera e Andrea Petronici
Savona/Bologna - 16 Dicembre 2004


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