Il referendum sull'articolo 18

Tre motivi per votare Sì

L'esito positivo della battaglia sull'articolo 18 unisce tra loro, in modo oggettivo, gli interessi di diversi settori della classe subalterna, modifica i rapporti di forza tra le classi a favore dei lavoratori e rappresenta in sé un elemento importante di politica economica alternativa.

un manifesto della campagna referendariaInfatti, l'estensione dell'art. 18 garantisce più diritti per i lavoratori con annessa maggiore capacità di lotta sul posto di lavoro, quindi, tra gli altri aspetti, maggiore possibilità di ottenere recuperi e reali aumenti salariali e di pretendere piattaforme contrattuali tipo quella della FIOM, piuttosto che tipo quelle delle altre categorie. Ciò rappresenterebbe anche automaticamente una difesa delle pensioni presenti e future, dato che salari più elevati determinano un aumento dei versamenti contributivi. Maggiori salari e tenuta delle pensioni costituirebbero una difesa generalizzata del potere d'acquisto a fronte dell'aumento dei prezzi dei generi alimentari e delle tariffe delle utenze domestiche. Queste argomentazioni dovrebbero sgombrare il campo da una presunta ininfluenza dell'esito del referendum per categorie sociali come quelle dei pensionati e delle casalinghe. Così come tutti i lavoratori precari, di tutti i tipi, anche se appartengono a categorie che non godono direttamente dell'estensione dell'art. 18, hanno interesse alla vittoria del sì. In questo caso la cosa è addirittura ovvia: l'estensione dei diritti dei lavoratori innesca un processo positivo che apre prospettive più favorevoli anche per tutti i lavoratori atipici.

Anzi, allo stato attuale dei processi legislativi, solo una vittoria del sì può fermare l'azione del governo rivolta, da un lato, a svuotare in prospettiva l'art. 18 con l'approvazione della legge delega 30/2003 e, dall'altro, a limitarne l'applicazione nell'immediato col disegno di legge 848bis. La vittoria del sì è l'unica risposta giuridica efficace ed immediatamente praticabile contro la politica del governo, che, invece, in assenza dell'iniziativa referendaria avrebbe avuto la via spianata.

In termini keynesiani, lo scenario disegnato da una vittoria del sì sarebbe quello di una ripresa dell'economia dal lato della domanda, quindi in assoluta controtendenza rispetto alle politiche, dal lato dell'offerta, che sono state imposte dal neoliberismo negli ultimi 20 anni, coi disastrosi risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

In termini marxiani, un miglioramento a favore dei lavoratori dei rapporti di forza tra le classi, agendo direttamente sulla sfera sovrastrutturale (la legislazione in materia di lavoro) influenzerebbe anche la sfera strutturale, creando le condizioni per una redistribuzione del reddito a favore del salario e, quindi, per una riduzione del saggio di sfruttamento (il saggio del plusvalore). Questo è già accaduto in occasione della richiesta di referendum abrogativo presentata da Democrazia Proletaria nel 1980 riguardo alla legge che aveva recepito l'accordo interconfederale del 1977 che escludeva la contingenza dal calcolo delle liquidazioni. Per evitare il referendum, fu ripristinato, nel 1981, un meccanismo che permise un buon recupero in termini di TFR: ciò ha determinato, e continua, per ora, a determinare il trasferimento complessivo di centinaia di migliaia di miliardi di lire dai profitti ai salari (il TFR è salario) con diminuzione, da questo punto di vista, del saggio di sfruttamento e questa volta in via diretta, attraverso la modifica della legislazione.

Il referendum per l'estensione dell'art. 18 ripropone la centralità del lavoro dopo almeno 20 anni di sua crescente rimozione a vantaggio della centralità dell'impresa e del profitto, ed in un momento in cui si accentua l'attacco alla Costituzione proprio per il suo essere imperniata sul lavoro, come diritto che deve essere tutelato dall'intervento dello Stato (la Costituzione di ispirazione sovietica, secondo l'ineffabile Berlusconi!).

Ridare dignità al lavoratore togliendolo dalla condizione di sudditanza nei confronti dell'impresa è strettamente conforme ai principi fondamentali ed al titolo III della nostra Costituzione. Garantire che i lavoratori possano essere licenziati solo nei casi previsti dalla legge sancisce un principio di civiltà che si limita ad escludere l'uso del licenziamento come ricatto nei confronti dei lavoratori. O c'è qualcuno che è disposto ad affermare apertamente che è giusto che i licenziamenti illegittimi siano possibili? Si dà il caso, però, che questa sia la realtà attuale, cui il referendum porrebbe rimedio!

L'art. 18, richiamandosi alla L.604/1966, non garantisce nessuna illicenziabilità dei lavoratori. Detta legge, agli art. 1 e 3 prevede che, oltre che per giusta causa (comportamenti del lavoratore di eccezionale gravità, come il danneggiamento volontario degli impianti, il furto di beni aziendali) e per giustificato motivo soggettivo ("notevole inadempimento degli obblighi contrattuali" da parte del lavoratore), il lavoratore possa essere licenziato anche per giustificato motivo oggettivo, cioè per "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa" (esempio: una ristrutturazione aziendale, che automatizzi un certo lavoro, in modo che l'azienda abbia bisogno di un lavoratore avente capacità professionali diverse). È falso, dunque, affermare che l'art. 18 impedisce all'azienda di adeguare la forza lavoro alle proprie esigenze produttive. Il reale obiettivo di chi vuole cancellare l'art. 18 è ottenere il completo comando sul lavoro legando in modo esplicito il mantenimento del posto di lavoro unicamente alla discrezionalità del padrone!

Cade così anche la montatura relativa ai presunti danni per l'occupazione dell'estensione dell'art. 18. Il livello dell'occupazione dipende da ben altri fattori. Per esempio, a metà degli anni '70 (alcuni anni dopo l'entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori) il tasso di disoccupazione in Italia superava di poco il 5%, e solo successivamente, come conseguenza della stagflazione seguita agli aumenti del prezzo del petrolio ed alle politiche economiche deflazionistiche dei governi europei, si verificò l'aumento della disoccupazione col balzo oltre il 10%. Nonostante che, nel 1978, la "legge per l'occupazione giovanile" avesse ampliato, per la prima volta dopo la legge del '62, la possibilità di stipulare contratti di lavoro a termine, quindi la flessibilità!

Lo stesso Pietro Ichino deve riconoscere questa semplice verità, pur essendo un giurista dell'area "liberal" dell'Ulivo, acerrimo avversario dell'art. 18, al punto da aver ispirato, in qualità di esperto del governo D'Alema, un disegno di legge che "Il Sole-24 ore" del 7/9/98 definiva in termini entusiastici ("Una riforma di ampio respiro è stata messa a punto dal senatore Franco Debenedetti [DS], che propone una nuova disciplina del recesso: un unico regime che riduca l'inamovibilità del lavoratore e la rigidità nella tutela contro il licenziamento individuale....In sintesi... in prima fila cadrebbe la disposizione che vieta il licenziamento se non per giusta causa o giustificato motivo. In cambio, viene previsto un lungo preavviso di licenziamento, da 6 a 12 mesi per i lavoratori subordinati di aziende con più di 15 dipendenti e da 3 a 6 mesi in tutti gli altri casi...con il pagamento di un'indennità"). Infatti, in un recente volume ("Non basta dire no", Mondatori 2002) ammette che " i risultati della ricerca economica non consentono di affermare che a un aumento della libertà di licenziamento corrisponderebbe né una riduzione del nostro tasso di disoccupazione né un aumento della competitività delle nostre imprese".

Ma gli idolatri del Mercato e "pensatori unici" non demordono: a quando l'accusa alla Costituzione di creare disoccupazione, perché contraria alla flessibilità selvaggia?

La vittoria del sì al referendum rappresenterebbe una sconfitta pesantissima per il pensiero unico del Mercato in uno dei suoi punti cardine (la "necessità"di un mercato del lavoro assolutamente flessibile alle "esigenze" delle imprese) ed una sconfessione delle politiche di smantellamento dei diritti dei lavoratori condotte, in particolare, a partire dagli anni '90 ed in via di ulteriore inasprimento da parte del governo Berlusconi.

Rappresenterebbe uno smacco durissimo, dopo circa due decenni di dominio incontrastato delle politiche neoliberiste e di incessante campagna informativa e formativa, portata avanti con ogni strumento, dai mezzi di comunicazione di massa alla scuola. Solo flebili (per la pochezza dei mezzi a disposizione) voci, sia in campo politico che culturale, si sono levate per molti anni contro il pensiero unico. Solo col nuovo millennio il "movimento dei movimenti" contesta con crescente peso gli effetti del neoliberismo e solo a partire dal G8 di Genova le tematiche del lavoro si affermano in modo crescente all'interno del movimento contro la globalizzazione neoliberista. Una secca sconfitta politica e culturale del neoliberismo in Italia rappresenterebbe anche un cambiamento del peso specifico della sinistra di alternativa rispetto a quella liberale, attualmente maggioritaria, ed una crescita della sua credibilità nei confronti della classe subalterna nel suo complesso. Si tratta, anche qui, di condizioni necessarie al realizzarsi di quel progetto di politica economica alternativa cui si accennava nel primo punto. Non è facile ad esempio immaginare compiutamente le ricadute di una vittoria del sì all'interno del movimento sindacale. Certo la lotta della FIOM se ne avvantaggerebbe! Ma non ci sarebbe anche, e soprattutto, un'accentuazione generalizzata della radicalità del conflitto sociale, a seguito della prima vittoria dei lavoratori dopo tanti anni? E come reagirebbe il governo di fronte ad uno stop così perentorio alle sue politiche antisociali? E la fede del centrosinistra nella bontà delle politiche neoliberiste resterebbe immutata?

P.S. Un allarme. Coloro che oggi invitano a non andare a votare, in molti casi, lo fanno, non solo contro le proprie radici politico-culturali e non solo smentendo decenni di disprezzo vomitato addosso all'analoga decisione di Craxi di invitare ad andare al mare, ma contribuiscono a rendere più affilata l'arma del controllo sul voto. Quanti saranno i padroni più o meno piccoli che potranno permettersi di pretendere dai loro dipendenti di prendere visione della loro scheda elettorale per verificare che non hanno partecipato al voto, pena il licenziamento? Più soli saranno i lavoratori delle piccole imprese, più saranno ricattabili, come già lo sono persino rispetto alla reale applicazione del loro stesso contratto di categoria, sia in termini di diritti che di salario. Attualmente chi protesta può essere licenziato e, anche se dimostra davanti al giudice che il suo licenziamento è stato illegittimo, il padrone può confermarlo pagando solo un piccolo risarcimento dei danni! È questo il vero nocciolo del problema che il referendum affronta e permette di risolvere votando sì!

Sergio Casanova
Responsabile Formazione e Programma PRC Liguria
Genova - 17 Maggio 2003